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Da L'opinione, Edizione 251 del 19-11-2007
Un nuovo articolo di Stefano Magni

[b][size=13]Stephen Walt e John Mearsheimer presentano la loro “Israel Lobby” a Milano. E non convincono.
Per i due politologi, la colpa è sempre e solo dello Stato ebraico[/size]
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Stephen Walt e John Mearsheimer sono pronti a parlare. Attendono la fine della lunga e dettagliata presentazione del loro lavoro da parte del professor Vittorio Emanuele Parsi.

Il pubblico attende le prime battute dei due professori americani, autori del controverso “La Israel Lobby” (Mondadori): al Cinema Apollo, Milano, il 15 sera, quasi tutta la platea appartiene alla comunità ebraica milanese. La presentazione del volume è stata organizzata, oltre che dalla Mondadori, anche da “Witz”, una nuova associazione culturale ebraica. Tutti vogliono vedere se gli autori sono veramente i responsabili della rinascita, anche nel mondo accademico, della teoria della cospirazione giudaica. E proprio per questo il dibattito viene preceduto dalla proiezione di un servizio di David Parenzo (TeleLombardia) sui pregiudizi antisemiti in Italia. Ma Walt e Mearsheimer, fortunatamente, deludono questa aspettativa: quando parlano di “lobby”, si riferiscono a un gruppo di pressione, perfettamente legale che agisce alla luce del sole.

“Questo è un argomento piuttosto difficile da affrontare” – spiega Stephen Walt – “perché dietro di noi c’è una lunga storia di antisemitismo e tante fantasie su congiure ebraiche. Noi rigettiamo tutte queste teorie della cospirazione, con il nostro libro non abbiamo dato sostegno ad alcuna di esse e non abbiamo mai messo in discussione il diritto di Israele ad esistere. La lobby israeliana è un gruppo di pressione tra i tanti. Il suo operato è del tutto trasparente legale nel sistema politico americano”. Lo studio di Walt e Mearsheimer studia i rapporti tra i gruppi di pressione e l’amministrazione, giungendo alla conclusione che, dopo l’11 settembre, la lobby israeliana (o almeno: l’insieme delle numerose lobby pro-Israele) ha molta più voce in capitolo. Però qui finisce la discussione di scienza politica e inizia quella ideologica, soprattutto da quando il professor Mearsheimer prende la parola e parte con: “Vi faccio un esempio che dimostra chiaramente, in modo inequivocabile, come la lobby israeliana stia premendo per una politica che non è né nell’interesse degli Stati Uniti, né in quello di Israele”.

E iniziano i luoghi comuni: l’odio arabo inizierebbe con l’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza nel 1967 e con la politica degli insediamenti ebraici; il terrorismo arabo e poi quello islamico (Bin Laden compreso) sarebbero il frutto di questo odio contro l’occupazione israeliana; Israele, se dovesse procedere con questa politica di occupazione, diventerebbe uno Stato basato sull’apartheid e non sarà più una democrazia, ecc… Secondo Walt e Mearsheimer, per soddisfare gli interessi degli Stati Uniti e la sua stessa sicurezza, Israele deve ritirarsi unilateralmente dai Territori. Questo, secondo loro, è “un consiglio da amico” e non il frutto di un pregiudizio contro lo Stato ebraico. Tutte le tesi, insomma, che continuiamo a leggere nei pamphlet di sinistra e sentire nei discorsi dell’ex presidente filo-arabo Jimmy Carter. E che non tengono conto di alcuni “piccoli” particolari: dell’ideologia islamista del terrorismo (che mira a ricostruire il Califfato); del fatto che le prime aggressioni arabe contro Israele non risalgono al 1967, ma sono iniziate negli anni ‘20 e ‘30, prima ancora della nascita dello Stato di Israele; dell’odio e disprezzo che gli arabi nutrono nei confronti dei palestinesi (massacrati dai Giordani e relegati al ruolo di eterni profughi), salvo poi utilizzarli come bandiera da sventolare contro Stati Uniti e Israele.

Davide Romano, uno dei fondatori di “Witz”, chiede perché mai una politica del ritiro unilaterale debba essere considerata in linea con gli interessi di Israele e degli Stati Uniti, visto che il disimpegno dal Sud del Libano ha portato direttamente alla guerra del 2006 e il disimpegno da Gaza è la causa delle sofferenze della popolazione israeliana di Sderot e Ashkelon, sotto il tiro dei razzi palestinesi dal 2001. Ritirandosi dalla Cisgiordania, Israele può assicurarsi la pace con i vicini? “Sì” risponde il professor Mearsheimer, senza che lo sfiori l’ombra di un dubbio. Poi rincara: “E ritirandosi dal Golan, Israele può ottenere un trattato di pace anche con la Siria”. E la minaccia degli Hezbollah? “Se Israele si ritira dal Golan, la Siria farà pressione su Hezbollah per far cessare le ostilità anche su quel fronte”.

Ma Hezbollah, che risponde direttamente agli ordini dell’ayatollah iraniano, si farebbe fermare dalla Siria? E perché mai la Siria, che quando possedeva il Golan, lo usò due volte come rampa di lancio per l’invasione di Israele, ora si accontenterebbe di tornare al vecchio confine? Nessuna risposta. Da questo punto di vista, Walt e Mearsheimer, molto scettici nei confronti di Israele, ripongono una fiducia sconfinata nella sincerità dei regimi dittatoriali arabi e nella loro volontà di raggiungere un accordo di pace. Dimenticandosi, però, che, nelle carte geografiche usate da questi regimi, Israele è già stata cancellata, sostituita da un’unica grande Palestina dal Giordano al Mediterraneo.

 

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