[b][size=14] Un articolo di Stefano Magni uscito su L'Opinione di oggi 27 gennaio[/size][/b]

Anche l’Italia ha il suo “Schindler” da ricordare. Giorgio Perlasca, a Budapest, fingendosi addetto all’ambasciata spagnola, pose sotto la sua protezione e salvò da morte sicura circa 5000 ebrei. Impedì che venissero imbarcati sui vagoni della morte che li avrebbero portati ai campi di sterminio, assicurò loro un rifugio sicuro nelle abitazioni sulla riva del Danubio che erano di proprietà dell’ambasciata (e dunque extra-territoriali) e fornì loro medicinali e viveri. Alla fine del 1944, fingendosi sempre un diplomatico spagnolo e inventando minacce di ritorsioni da parte del governo di Franco, riuscì a convincere il regime nazista ungherese a non radere al suolo il ghetto ebraico di Budapest.

Eppure Perlasca non era un politico. Era un commerciante italiano, aveva combattuto come volontario in Etiopia e poi in Spagna, era simpatizzante per il governo di destra ungherese retto dall’ammiraglio Miklos Horthy, dal 1941 alleata con la Germania di Hitler. La situazione cambiò drasticamente il 19 marzo del 1944, quando la Germania occupò il paese e instaurò un regime-fantoccio. Fu allora che iniziò la storia di Perlasca, una storia di eroismo che rimase completamente sconosciuta fino al 1988, quando questo “eroe per caso” fu rintracciato e ricontattato da alcune famiglie ebree ungheresi che aveva salvato. Che cosa spinse Giorgio Perlasca a rischiare così tanto? Ne abbiamo parlato con suo figlio, Franco Perlasca, che abbiamo incontrato in occasione di una conferenza organizzata dall’Associazione Amici di Israele presso il Consiglio di Zona 3 di Milano: “Non ci fu alcuna motivazione ideale o politica, ma umanitaria” – ci spiega Franco Perlasca – “Vedeva le persone che venivano prese e avviate verso i campi di sterminio. Visto che aveva la possibilità di salvarle, lo fece senza dubbi”
Com’era la situazione in Ungheria fino alla primavera del 1944?
Anche dopo lo scoppio della guerra, l’Ungheria era totalmente diversa rispetto agli altri paesi dell’Europa orientale alleati dei nazisti. Gli ebrei non venivano deportati. Venivano certamente discriminati. Anche in Ungheria erano in vigore leggi razziali, erano state fissate delle quote che li penalizzavano nelle scuole, nelle università e nell’impiego pubblico. Ma la comunità ebraica locale, circa 800.000 individui, era intatta nel marzo del ‘44. Merito dell’ammiraglio Horthy, una personalità forte che riuscì a tenere a bada Hitler.
Quando le Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, presero il potere, suo padre cambiò idea sugli ungheresi?
La presa del potere dei nazisti fu un vero e proprio colpo di Stato, non una scelta popolare. Naturalmente c’era chi era filo-nazista, come in tutti i paesi dell’Europa in guerra. La società ungherese era molto composita e anche multipartitica: fino ad allora c’erano state elezioni, pur controllate. Il colpo di Stato avvenne dopo che Horty lanciò alla radio il messaggio dell’uscita dell’Ungheria dalla guerra. Probabilmente sbagliò i suoi calcoli e non immaginò quale sarebbe stata la reazione nazista. Il regime che conquistò il potere raggiunse dei livelli di violenza inauditi. I nazisti in Ungheria erano convinti di dover recuperare il tempo perduto, di completare lo sterminio di tutta la comunità ebraica in pochi mesi, quando negli altri paesi c’erano voluti anni. E in pochi mesi, effettivamente, assassinarono i tre quarti dell’intera comunità. La responsabilità del genocidio è di una minoranza fanatica, mentre mio padre ebbe sempre una grandissima stima del popolo ungherese, di cui ammirava soprattutto la fierezza. Un coraggio popolare che fu confermato anche dopo la II Guerra Mondiale, quando l’Ungheria si sollevò contro il potere comunista: quella del ‘56 fu realmente una sollevazione di popolo, in tutti i sensi.
Proprio a proposito dei sovietici: di solito la storia di suo padre finisce con l’arrivo dei sovietici a Budapest. Ma fu veramente un lieto fine?
Fu un lieto fine perché l’Armata Rossa pose fine allo sterminio degli ebrei e alla dittatura delle Croci Frecciate. Allo stesso tempo non fu un lieto fine, perché quando l’Armata Rossa entrò in città, nelle prime due settimane scatenò l’inferno. Le truppe d’assalto erano completamente ubriache per darsi coraggio. Tutte le donne che incontrarono, dai 10 ai 90 anni, furono sistematicamente violentate. La situazione fu veramente tragica finché non giunsero le forze di prima linea a ristabilire un minimo di ordine, ma nei primi giorni si visse nel terrore.
Suo padre lottò contro tutti e due i totalitarismi del ‘900. Quali furono le sue scelte politiche nel dopoguerra?
Dopo la fine del conflitto mondiale si trasferì a Trieste e partecipò anche attivamente al movimento per far ritornare la città (allora zona occupata e amministrata dagli Alleati, ndr) sotto la sovranità italiana. Non fece mai politica attiva. Aderì inizialmente al Movimento dell’Uomo Qualunque, poi, quando questo scomparve, votò anche la Dc, ma soprattutto il Pli di Malagodi. Dalla metà degli anni ‘70, si avvicinò anche alla Destra Nazionale. Del fascismo non fu mai nostalgico, anche se sapeva distinguere tra i lati positivi e negativi del regime. Condannava le leggi razziali, l’alleanza con i nazisti e l’entrata in guerra, ma riconosceva la crescita economica, le grandi opere, il riconoscimento dei primi diritti dei lavoratori. Nel dopoguerra non cambiò assolutamente idea. Si riconosceva in alcuni valori che, almeno una volta, era considerati di “destra”: amare la patria e anteporre i doveri ai diritti.
Suo padre ricevette riconoscimenti da Israele e dall’Ungheria e l’Italia arrivò ultima a decorarlo. Quali furono le ragioni di questo ritardo, secondo lei?
La storia di mio padre è difficile da raccontare, anche per motivi ideologici. Perché è la storia di una persona che era stata fascista, che smise di essere fascista, ma non divenne “antifascista” nel senso classico del termine. Non era facilmente inquadrabile da una storiografia che ha sempre distinto in modo netto i buoni e i cattivi. Mio padre era bollato per quel suo “peccato originale” e non era facile trovare una soluzione per un suo pieno riconoscimento. Secondo me, ruppe un po’ gli argini il presidente Francesco Cossiga. L’assegnazione a mio padre della medaglia d’oro al valor civile, fu una sua picconata e fu uno dei suoi ultimissimi atti da presidente. Al resto pensò la burocrazia. La comunicazione della decorazione ci arrivò nel settembre del 1992, quando mio padre era mancato in agosto.

http://www.opinione.it/[/link]

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.