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[i][b](di Gian Arturo Ferrari – Fonte: [/b][/i])

[b]C’è qualcosa di rozzo e brutale nell’appello al boicottaggio della Fiera di Torino[/b]. Non solo il tono, nella più parte dei casi propagandistico e quindi prevedibile, ma a volte mascherato invece da argomentazione razionale. Quanto la sostanza, costruita su f[b]alse equazioni[/b], presentate come ovvie, immediate. Israele uguale al Sud Africa dell’apartheid. La partecipazione alla Fiera uguale a operazione oscura (del Mossad?). Israele uguale a male assoluto, negatività, peggio dei peggi. Fino a un cupo e forsennato delirio: Israele razzista, genocida, nazista.

C’è qualcosa di soffocante, manca l’aria quando cadono tutte le distinzioni che articolano la civiltà e tutto si ammassa e si confonde in un bolo indigerito di ira e frustrazione. E allora uno Stato diventa la sua politica e questa il governo e il governo il burattinaio degli scrittori e gli scrittori – quelli di sinistra specialmente – gli utili idioti mandati in giro per fiere a ingannare i gonzi. [b]Ci sarebbe qualcosa di triste se, alla fine, i grandi scrittori israeliani, tra le voci più alte che oggi onorano la letteratura e il mondo, a Torino non dovessero esserci[/b]. Perché, se così fosse, vorrebbe dire che un tentativo, per quanto limitato, antiquato e rozzo, di mettere a tacere avrebbe avuto successo. E questo noi non dovremmo permetterlo.

Di per sé l’editoria libraria non è un’attività particolarmente nobile o elegante. Ha a che vedere, ma non si identifica, con la cultura. Ha a che vedere, ma non si identifica, con il commercio. La sua gloria consiste nel fatto di essersi storicamente rivelata come il mezzo di gran lunga più efficace per diffondere la cultura. Là dove i grandi imperi e le religioni secolari avevano fallito, gli industriosi editori e i solerti librai, attenti ai loro modesti profitti, sono riusciti. Ma, per farlo, hanno avuto bisogno – come dell’aria – della libertà di espressione. Un grande principio, certo, ma per loro una condizione del tutto pratica, la possibilità stessa della loro esistenza. Se la sono conquistata e intendono difenderla. Ancor oggi, soprattutto oggi, lo stato di salute di una cultura si misura dalla libertà con cui si può esprimere, vale a dire, in concreto, dagli ostacoli che vengono frapposti al suo esercizio. E dalla sua capacità di superarli. Può essere un singolo libro che va tolto dalla circolazione, un singolo autore che va messo a tacere. O un gruppo di autori, una scuola, una corrente. O addirittura, come nel nostro caso, un’intera cultura nazionale cui viene negato un diritto di presenza, di parola collettiva. Ma ogni volta non è mai in discussione il singolo, libro o autore o gruppo che sia, bensì l’atmosfera, la respirabilità nel suo insieme. L’inquinamento, anche se l’agente è minuscolo, si estende immediatamente e inaridisce le fonti della creazione, della conoscenza, della fantasia. [b]Dunque bisogna ringraziare i responsabili della Fiera, i finanziatori, privati e pubblici, i responsabili politici per aver assunto una posizione inequivoca. Difendono qualcosa di essenziale per tutti noi.[/b]

Ebbi la fortuna di assistere all’ultimo discorso pubblico di [b]Susan Sontag[/b], quando ricevette a Francoforte il Friedenpreis. Era molto malata e lo sapeva; sarebbe morta di lì a pochi mesi. Ma era ancora pugnace e combattiva, una liberal americana non chic e non certo da salotto. Dura e intelligente. Fu feroce con Bush, che maltrattò per tutto il discorso. Ma alla fine raccontò un episodio e si capì che era il suo commiato, quello vero. Da piccola – disse – viveva in Arizona, a poca distanza da un campo di prigionia per tedeschi, di cui lei, ragazzina ebrea, aveva una terribile paura e che temeva venissero di notte ad assalirla. Nel frattempo un suo bizzarro professore, che aveva combattuto contro Pancho Villa e che si era stranamente innamorato della letteratura tedesca, le fece leggere i grandi classici, Goethe e Schiller e Heine, le trasmise il suo amore. Molti anni dopo, quando il suo primo libro fu tradotto in tedesco, conobbe in Germania il suo redattore. Il quale, molto rispettoso, la informò preventivamente che durante la guerra non aveva fatto nulla di male, avendola per la più parte trascorsa in un campo di concentramento americano. In Arizona. In quel campo. Dove, essendo bene alimentato e non avendo nulla da fare, si era dedicato a leggere i grandi classici americani, Melville e Poe e James. E se ne era innamorato. [b]Questo, concluse Susan Sontag, è il senso della letteratura: superare le barriere di cultura, di tempo e di spazio. Superare le diffidenze, le paure e i pregiudizi. Potersi incontrare. La letteratura – disse – è libertà.[/b]

 

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