[b]Alla jihad col permesso dei genitori: è polemica fra gli imam
FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME[/b]

Hussan Bilal Abdul avrebbe dovuto chiedere il permesso a mamma e papà quel pomeriggio estivo del 2004, prima di presentarsi imbottito d'esplosivo al check point di Hawara, vicino Nablus, per immolarsi a soli 16 anni nel nome della Palestina? Cosa avrebbero detto, se interpellati in tempo, i genitori di Rashida, adolescente-bomba scagliata contro un pulmino di turisti a Kusadasi, in Turchia, un mese dopo Hussan? E quelli del tredicenne Abdul Karim, saltato in aria al posto di blocco americano di Kirkuk, in Iraq, il primo novembre 2005? A chi appartiene la vita dei baby-kamikaze, nuovo terribile strumento del terrorismo islamista, alla famiglia o al Dio impietoso che pretende il sacrificio estremo? La domanda è al centro di un serrato dibattito tra i massimi teorici della jihad globale.

Il 6 marzo scorso il sito internet al-Sahab, braccio mediatico di al Qaeda, diffonde un'audiocassetta intitolata «They Lied: Now Is the Time to Fight», «Mentono: ora è tempo di combattere». Per 46 minuti il protagonista, l'egiziano Ahmed Muhammad Uthman Abu-al-Yazid, 52 anni di cui 3 trascorsi in una cella del Cairo con l'accusa d'aver partecipato all'assassinio del presidente Sadat, fido luogotenente di Osama in Afghanistan, si rivolge a padri e madri musulmane pregandoli di non ostacolare la volontà divina. «Ci appelliamo a voi affinché non vi frapponiate tra i vostri figli e il paradiso» dice Abu-Al- Yazid. «Se pure li disapprovate non impedite loro di diventare shadid». Martiri.

L'appello del consulente di al-Zawahiri non è un'uscita estemporanea, ricostruisce il quotidiano Wall Street Journal. Un anno fa Sayyed Imam al Sharif detto dottor Fadl, primo emiro dell'Egyptian Islamic Jihad e autore del saggio «Foundations of Preparation for Holy War», la bibbia del salafismo, aveva diffuso un pamphlet molto critico verso i vecchi compagni di clandestinità, «The Document of Right Guidance for Jihad Activity in Egypt and the World», una ritrattazione sistematica della teologia qaedista. Imam al Sharif, oggi incarcerato in Egitto, spiega che «la jihad proibisce di uccidere civili e di distruggere vite che sono sacre ad Allah». Anche la guerra santa insomma, ha le sue regole. La principale, secondo il dottor Fadl, sarebbe il rispetto dell'autorità della famiglia, cardine della società musulmana: «È vietato per un minore andare a combattere senza il permesso di entrambi i genitori».

Immaginate lo scompiglio tra le fila dei mujaheddin, per cui non esiste infedele peggiore di un traditore. Da mesi i forum dei siti jihadisti discutono sul libro dell'emiro «rinnegato ». «Dovremmo permettere che il nostro sangue venga versato senza opporre resistenza? » si chiede Abu Yahyha Al-Libi, comandante di al Qaeda in Waziristan. C'è il post di una madre fiera della prole eroica («Prima che si facesse esplodere il mio ragazzo mi ha chiamato al telefonino per avere un incoraggiamento e gli ho detto di ripetere i versetti del Corano») e molte richieste di moratoria («risparmiate i bambini»). Un dibattito intenso al quale partecipa anche al Zawahiri, numero due di Osama bin Laden: «Per accontentare il lacchè dell'alleanza crociato-sionista suggeriremo agli shadid di mandare prima un fax a mamma e papà».

Può darsi che l'appello del dottor Fadl e la replica di Uthman Abu-al-Yazid si perdano nell'oceano della jihad telematica. Magari il richiamo alla famiglia è davvero un'operazione architettata dal ministero dell'interno egiziano, come ipotizza il columnist turco Dogu Ergil. Ma gli analisti concordano nel riconoscere un mutamento del mondo musulmano, all'inizio non troppo severo verso il salafismo, dopo le bombe qaediste contro i sunniti ad Ammam, quelle contro gli sciiti in Iraq, dopo il debutto d'una strategia del terrore nichilista che travolge l'ordine interno di società profondamente tradizionale.

 

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