[b]Un articolo di R.A. Segre[/b]

[b]Dal GIORNALE del 5 luglio 2008[/b]

[b]Eliahu Avihail[/b] è un rabbino ortodosso che da 46 anni si è dedicato a una missione difficilmente definibile «ortodossa»: la scoperta e localizzazione dei discenti delle tribù di Israele che formavano gli antichi stati di Israele (10 tribù) e di Giuda (due tribù). Esse furono esiliate nell'impero assiro babilonese prima e dopo la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme nel 586 a.C.. Nonostante i suoi 77 anni Rav Eliahu sprizza energia anche nelle torride giornate estive di Gerusalemme. Mi riceve nel suo studio, tappezzato di libri. Quanti sono in realtà gli ebrei «figli di Menashe», discendenti di queste mitiche tribù disperse?

[img]/new/e107_images/newspost_images/tribu_israele_e_giuda.jpg[/img]

Il rabbino sorride e si accarezza la larga barba bianca. Dice che potenzialmente potrebbero anche essere 35 milioni. Di fatto sono molto meno perché per essere riconosciuti come tali debbono possedere dei chiari segni di osservanza dell'ebraismo che non tutte le popolazioni che si autodefiniscono ebraiche o ebraicizzanti posseggono. Per esempio la circoncisione che solo gli ebrei impongono ai loro maschi nell'ottavo giorno dalla nascita. Rav Eliahu e la società Amishav (Il mio popolo ritorna) da lui fondata non sembrano simpatizzare molto con altre associazioni ebraiche che si interessano alla conversione di questi «ebrei ritrovati». A decidere del loro avvenire sarà la realizzazione della promessa divina di ricondurre gli ebrei dispersi alla terra di Israele tanto dall'Oriente che dall'occidente secondo le profezie di Isaia, Ezechiele e altri testi sacri.
La missione che Rav Eliahu si è scelta è di identificare queste tribù disperse, di raccogliere documentazione antica e moderna, per trasformare il mito delle «dieci tribù» disperse in realtà. La particolarità che distingue queste diaspore ritrovate in Oriente da quelle d'Occidente non è solo nella conservazione di riti, costumi e nomi di famiglie ebraici biblici, anche quando hanno adottato altre religioni, ma il fatto di essere state esiliate in gruppi che mantennero nei secoli una spiccata identità nazional-religiosa, e alle volte anche istituzioni politiche e militari. Muovendosi poi in gruppo su vasti territori di ormai scomparsi imperi orientali hanno spesso «esportato» le loro tradizioni coinvolgendo in forme di ebraicità milioni di persone.
Rav Avihail ha viaggiato per anni per individuarle fra i Pathans dell'Afghanistan e del Pakistan; del Kashmir indiano; nel popolo Karen del nord est di Myanmar; fra i Shinlung del nord est dell'India che si autodefiniscono «Bnei Menashe» (Figli di Menasse), nelle tribù Chiang-Min in Cina (al centro della zona recentemente provata dal terremoto); nel Giappone, nel Caucaso e nel Kurdistan. Ha identificato gruppi che dal punto di vista strettamente ebraico, non rappresentano che qualche decina di migliaia di individui. Potenzialmente potrebbero diventare gli avamposti di gruppi molto più consistenti, di cui qualche centinaio si è gia installato in Israele.
Con Rav Avihail evito di trattare delle possibili conseguenze politiche e demografiche qualora questa forza migratoria potenziale verso Israele si trasformasse in forza cinetica. Per lui, del resto, a compiere questo messianico evento non saranno ne la politica ne l'economia. Sarà solo la volontà divina a realizzare le promesse fatte al popolo d'Israele ribadite dai profeti Ezechiele, Isaia e tanti altri testi che prevedono la riunione nella terra d'Israele delle comunità sparse in Occidente e in Oriente.
Mi dice che all'inizio della sua missione ci fu la benedizione di un grande rabbino di Gerusalemme. Poi nel 1975 un primo contatto fu stabilito con un gruppo che si dichiarava ebreo in Afghanistan attraverso uno giovane persiano venuto a studiare a Gerusalemme. A esso seguì nel 1980 una spedizione che identificò discendenti delle antiche tribù nel Kashmir e nello stato di Mysoran nel nord est dell'India. Qui per la prima volta venne stabilito un contatto con il gruppo dei Shin Lung, discendenti diretti della tribù di Menashé. Seguì la scoperta a Trivandrum, in India della setta dei Kananaim, cristiani provenienti dalla Siria. Era formata da 70 famiglie che conservavano antiche preghiere in aramaico, la lingua degli ebrei al tempo di Gesù, di cui nessuno di loro, però, comprendeva il significato. Glielo spiegò Rav Avihail esperto di aramaico che si rese conto di trovarsi in mezzo a una comunità creata all'origine da ebrei cristiani, cioè fra discendenti di quegli ebrei cristiani di Palestina che per anni si considerarono ebrei ortodossi, pur accettando il messaggio di Gesù prima della rottura fra la chiesa e la sinagoga. Da questa sua esperienza è anche nato l'allargamento dei suoi interessi per altre comunità cristiane con conoscenze ebraiche ancora vive ed espresse in riti e costumi famigliari: discendenti di marrani a Mayorca, in Sicilia e di origini e di tipo del tutto diversi in Giappone.
Qui si concentrano i suoi studi attuali mentre la massa di informazioni (e di fotografie) da lui raccolte alimenta i suoi cicli di conferenze in Israele, in Francia e in Inghilterra. Parte di esse ha formato la base di un suo libro: «Le tribù d'Israele, perdute o lontane». Sono documenti e storie su un mondo ebraico o ebraicizzante poco conosciuto e che ora, molto grazie a lui rinasce. È una scoperta gravida di imprevedibili ricadute per il mondo ebraico e per lo stato di Israele. Ma forse non solo per loro.

[b]Un articolo sugli "ebrei neri" di Dimona:[/b]

Le donne portano i tipici copricapo colorati dell’Africa occidentale; le bambine un velo simile a quello delle suore; gli uomini indossano la kippah. Gli «ebrei neri», come si fanno chiamare, vivono a Dimona, nel del deserto del Negev, in Israele. Sono una comunità di 3.000 persone. Nel quartiere degli «ebrei israeliti africani di Gerusalemme» sembra d’essere sul set di un film di Spike Lee, nel sobborgo di una città degli Stati Uniti. «Benvenuti nel villaggio della pace», è scritto in inglese su un bianco arco in ferro battuto, all’entrata del loro «kibbutz urbano». Tutti parlano inglese con un forte accento americano. «Yeah man, certo che ti faccio strada, questa è la mia casa», dice un uomo di colore alla guida di un furgoncino. La sua storia, come quella di tutti i suoi vicini, parte da Chicago, dove nel 1966, Ben Carter, il fondatore, detto Ben Ammi, il figlio del popolo, ebbe una visione. Raccontano i suoi discepoli che l’arcangelo Gabriele gli rivelò che gli afro-americani discendono dagli israeliti: dopo l’esilio babilonese sarebbero fuggiti in Africa, poi, con la schiavitù, deportati negli Stati Uniti. Dopo una tappa in Liberia, Ben Ammi e seguaci arrivarono a Dimona. La comunità fu accolta sotto le leggi d’immigrazione (aliyah) che si applicano agli ebrei: ottennero la cittadinanza. Poi, visti i continui arrivi, il Rabbinato d’Israele decise che gli afro-americani di Dimona non erano ebrei e per diverso tempo i discepoli di Ben Ammi rinnovarono visti turistici. Nel 2004 fu concessa loro la residenza, ma non la cittadinanza. I rabbini però sono scettici. Il loro credo infatti differisce dal giudaismo: si basa sulla Torah, i primi cinque libri della Bibbia, ma non sul Talmud (raccolta di insegnamenti rabbinici). Osservano lo shabbat ma lo considerano anche giorno di digiuno. Hanno uno stile di vita sano: sono vegetariani e ritengono lo sport parte integrante della vita spirituale.
La comunità si è inserita però bene nel tessuto cittadino, già di per sé variegato: a Dimona nella stessa strada passeggiano beduini, bionde donne russe, immigrati etiopi, ebrei ultraortodossi vestiti di nero. I giovani della comunità, essendo residenti ma non cittadini, non devono prestare il servizio militare. Eppure, oltre cento dei loro ragazzi hanno fatto il militare o sono ora sotto le armi. La conferma della completa integrazione, dicono loro, è arrivata quando un ragazzo del kibbutz è stato selezionato come rappresentante d’Israele al concorso musicale internazionale Eurovision.

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.