[b]Il finto antinazismo di Cruise
L'esaltazione di Stauffenberg e l'oblio dei tanti che prima di lui decisero di voltare le spalle a Hitler[/b]

[b]di Bernard Henri Levy[/b]

Tom Cruise in una scena di «Valkyrie», che esce in Italia con il titolo «Operazione Valchiria» (Reuters)L'uscita nelle sale del film «Operazione Valchiria», prima negli Stati Uniti e in Germania e adesso in Francia, è evidentemente una buona cosa. Infatti, è sempre una buona cosa vedere che il mondo rende onore ai propri eroi (in questo caso, Claus von Stauffenberg, anima del complotto del 20 luglio 1944 che, come sappiamo, fallì nel tentativo di uccidere Adolf Hitler).

Resta il fatto che questo film, per quanto appassionante esso sia, pone un certo numero di interrogativi: troppo complessi, troppo delicati per essere risolvibili nella sola logica dell'industria hollywoodiana. Il primo non è sfuggito ai commentatori tedeschi: riguarda la scelta di Tom Cruise per interpretare il ruolo di un uomo che ci è presentato come l'incarnazione stessa dell'onore anti-hitleriano. Non che l'attore abbia mai manifestato una qualunque simpatia per l'hitlerismo. Ma è uno dei dirigenti di una setta, la Chiesa di Scientology, i cui valori, è il minimo che si possa dire, non hanno molto a che vedere con quelli che consentirono di abbattere Hitler. Elitismo… Darwinismo sociale e politico… Educazione intesa come addestramento… Lavaggio del cervello fatto passare come principio di convinzione… Sequestri… Applicazione delle tecniche della cibernetica al coordinamento del legame sociale… Magia nera… Visione apocalittica del mondo…

E' questa la scientologia. E' questo, quindi, il credo di Cruise. Avergli permesso di incarnare Stauffenberg è, da tale punto di vista, un errore, per non dire uno sbaglio — o, come ha detto il figlio Berthold von Stauffenberg quando ne fu informato — un grave, gravissimo oltraggio alla memoria del padre.

Il secondo interrogativo è probabilmente inerente a questo genere di film e porta a chiedersi se l'eroizzazione di un personaggio non avvenga, purtroppo, a discapito della precisione, della sfumatura e della storia stessa. Il film fa ben vedere l'integrità di Stauffenberg. Mostra il suo coraggio, l'elevatezza di vedute, la fermezza d'animo. Ma cosa ci dice dei suoi pensieri? Della sua adesione, entusiasta, al nazismo, nel 1933? Perché non espone nei particolari quello che, del nazismo degli inizi, egli dovette ripudiare per portare a termine il complotto e quello che, invece, conservò? Jünger, per esempio? Spengler? L'ostilità spietata nei confronti di Weimar e l'idea di democrazia che egli condivideva con gli ex compagni dei corpi franchi i quali, invece, restarono fedeli al nazionalsocialismo e al suo frenetico antisemitismo? La speranza consisteva nello sbarazzarsi di Hitler o dell'hitlerismo? Di un malvagio tiranno o del principio di qualsiasi tirannia? Il progetto era di distruggere il nazismo o di salvarlo? E perché il film non si dilunga sul vero e tragico paradosso della vicenda? Perché non illustra quello che si dovrebbe chiamare il «teorema di Stauffenberg», secondo cui bisognava avvicinarsi molto, moltissimo a Hitler (una prossimità che, tenuto conto di quella che era la società di iper-sorveglianza hitleriana, non poteva essere né finta né fittizia) per avere la possibilità, come Stauffenberg, di accedere alla Tana dei lupi e deporvi la valigetta con l'esplosivo?

Non credo di offendere la memoria di chicchessia dicendo che, dopo «Operazione Valchiria», resta aperta la questione della comunità di valori (eh sì!) fra il nazismo e certi suoi avversari; o anche che potrebbe esserci, dopo tutto, e in seconda analisi, una forma di Witz, di logica nascosta, di astuzia della Storia, nell'incontro fra l'attore scientologo e gli autori del complotto del luglio 1944.

Resta infine il rischio che questo film faccia vedere l'albero Stauffenberg, nascondendo però la foresta della resistenza tedesca all'hitlerismo, così come la descrive Joachim Fest in un libro che esce in questi giorni in Francia («La résistance allemande à Hitler», ed. Perrin) e che bisogna leggere come contrappunto a «Operazione Valchiria». Infatti, nella casta degli alti ufficiali hitleriani, c'è già una differenza fra cospiratori tardivi (Stauffenberg) e precoci (solo nel 1938, e dall'interno stesso dell'esercito, Hans Oster e Hans von Dohnanyi). Nella galassia generata dall'esplosione del primo nucleo nazional-socialista, ci sono i nazional-bolscevichi che, come Ernst Niekisch, ruppe con Hitler fin dal 1934; i nazional-conservatori nostalgici, come Canaris, di una grande alleanza a Est infranta dalla rottura dell'accordo Stalin-Hitler; i rivoluzionari conservatori, il cui prototipo fu Hermann Rauschning, autore di «La rivoluzione del nichilismo» (ed. Armando 1994). Ma soprattutto ci furono persone semplici, come il falegname Georg Elser, autore di un tentativo di assassinio di Hitler nel 1939. Ci furono associazioni studentesche, come il gruppo «La rosa bianca», che nascosero ebrei durante tutta la guerra. Ci furono socialisti, cattolici, ebrei. Ci furono gli operai di Berlino, eroi di un romanzo di Hans Fallada che, secondo Primo Levi, era il più bel libro sulla resistenza tedesca antinazista. Ci furono, infine, quei weimariani impenitenti, come Willy Brandt, che preferirono esporsi al rimprovero d'essere «disertori» piuttosto che affrontare l'irrimediabile disonore di dover portare l'uniforme della Wehrmacht e, quindi, dei cospiratori del 20 luglio. Cancellare queste distinzioni, tutte queste distinzioni: è qui la trappola. Sottolinearle, incriminarle, rifare instancabilmente la distinzione fra la cultura di guerra dei nazisti e di alcuni loro oppositori da un lato e l'antinazismo radicale degli eredi di Willy Brandt dall'altro: è questo il compito che impone la confusione stessa del film. Un compito per la Germania. Un dovere per l'Europa.

 

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