[b]di Daniel Pipes
Liberal
19 maggio 2009

Pezzo in lingua originale inglese: Obama and Netanyahu Meet: What's Next?[/b]

Qui di seguito tre motivi per aspettarsi un distacco dalla tradizione. 1) Troppe questioni divergenti – la corsa al nucleare dell'Iran, i rapporti con la Siria, l'adesione israeliana al Trattato di non-proliferazione e la vita degli ebrei in Cisgiordania – anche se nel vertice di ieri a " farla da padrone" è stata la soluzione "a due Stati", che mira a porre fine al conflitto israelo-palestinese con la creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico. Il piano poggia su due presupposti: a) che i palestinesi possano costruire uno Stato centralizzato e vitale e b) che rinunceranno al loro sogno di eliminare lo Stato d'Israele.

L'ipotesi "due popoli, due Stati" trovò il consenso dell'opinione pubblica israeliana nel periodo intercorso tra gli Accordi di Oslo del 1993 e la nuova serie di violenze palestinesi del 2000. A dirla tutta, almeno in apparenza l'idea di una soluzione "a due Stati" sembra ancora prevalere tra gli israeliani: Ehud Olmert si è entusiasmato per i colloqui di Annapolis, Avigdor Lieberman accetta la «Road Map a base esecutiva per una soluzione permanente con due Stati del conflitto arabo-israeliano» e un recente sondaggio condotto dalla Tel Aviv University rileva che il modello "a due Stati" continua ad essere apprezzato. Molti israeliani, tuttavia, incluso Netanyahu, rifiutano di credere che i palestinesi costruiranno uno Stato e/o abbandoneranno l'irredentismo. Ecco perché il premier israeliano preferisce accantonare la soluzione "a due Stati" e focalizzare piuttosto l'attenzione sullo sviluppo istituzionale ed economico (e sul miglioramento della qualità della vita) dei palestinesi. Ipotesi contro la quale, i Paesi arabi, i palestinesi, i governi europei e l'amministrazione Obama rispondono quasi all'unisono con evidente ostilità. Ed ecco la prima domanda: queste divergenze provocheranno una crisi nei rapporti israelo-statunitensi?

Nell'agosto 2007, il congressista statunitense Gary Ackerman (a sinistra) guardava con aria benevola Mahmoud Abbas dell'Autorità palestinese.
2) Maggiori preoccupazioni strategiche, invece, contraddistinguono le posizioni Usa verso lo Stato ebraico: durante il braccio di ferro con l'ex Urss (1948-70), i Repubblicani mantennero le loro distanze con Israele considerandolo un ostacolo e iniziarono ad apprezzarlo solamente quando Gerusalemme dimostrò la sua utilità strategica (dopo il 1970); i Democratici, di contro, raffreddarono il loro entusiasmo nel periodo successivo alla Guerra Fredda (dopo il 1991), quando in molti giunsero a considerarlo uno Stato "apartheid" che destabilizza il Medio Oriente e che intralcia in quell'area le politiche statunitensi. Oggi ci troviamo davanti a una realtà controversa: i sondaggi rilevano che l'appoggio repubblicano a Israele supera quello democratico con un margine di 26 punti percentuali. Inoltre, i Repubblicani approvano molto più dei Democratici che gli Usa aiutino Israele ad attaccare l'Iran. Con i Democratici ora in posizione dominante a Washington, questa disparità implica un raffreddamento rispetto agli anni di George W. Bush. Gary Ackerman (democratico di New York), presidente alla Camera dei Rappresentanti della Sottocommissione per il Medio Oriente, esemplifica questo cambiamento. Noto negli anni passati per aver preso le parti di Israele, Ackerman adesso accusa lo Stato ebraico di perpetuare "i pogrom dei coloni" e così prende parte a una "dinamica distruttiva". Seconda domanda: la visione critica dei Democratici si tradurrà in un cambiamento della politica nel prossimo incontro al vertice?

3) Lo stesso Obama proviene dall'ala fortemente antisionista della Sinistra. Appena pochi anni fa, egli frequentava disinvolti personaggi che avevano in odio Israele come Ali Abunimah, Rashid Khalidi, Edward Said e Jeremiah Wright per non parlare poi dei lacchè di Saddam Hussein, del Council on American-Islamic Relations e della Nazione dell'Islam. Quando Obama si fece strada nella politica nazionale, egli prese le distanze da questa consorteria. Divenuto presidente, ha conferito l'incarico di occuparsi di Medio Oriente a nomi appartenenti per lo più alla corrente democratica. Non si può far altro che ipotizzare se il suo cambiamento sia stato tattico, volto a negare ai Repubblicani una conclusione della campagna elettorale, oppure strategico, rappresentando un approccio realmente nuovo. Terza domanda: quant'è radicata l'antipatia che Obama nutre verso lo Stato ebraico?

Alcune previsioni. 1) Essendo l'Iran in testa alle priorità di Netanyahu, quest'ultimo eviterà una crisi declamando le parole "soluzione a due Stati" e accettando la strada della diplomazia con l'Autorità palestinese. 2) Anche i Democratici si comporteranno al meglio, contenendo la loro disaffezione per la visita di Netanyahu, evitando al momento una débâcle. 3) Obama, che ha un sacco di problemi per le mani, non ha bisogno di uno scontro con Israele e i suoi sostenitori. La sua mossa verso una posizione di centro, per quanto tattica, andrà oltre la visita di Netanyahu. Le prospettive a breve termine, dunque, offrono più continuità che dei cambiamenti nei rapporti israelo-statunitensi. Coloro che si preoccupano della sicurezza dello Stato ebraico tireranno prematuramente un sospiro di sollievo: prematuro perché lo status quo è fragile e i rapporti tra gli Usa e Israele potrebbero rapidamente sfilacciarsi. Tuttavia, anche l'assenza di progressi significativi nel processo volto alla creazione di uno Stato palestinese può generare una crisi, mentre un attacco israeliano contro infrastrutture nucleari iraniane, contrariamente al volere di Obama, potrebbe indurre quest'ultimo a troncare il legame avviato da Harry Truman, rafforzato da John Kennedy e solidificato da Bill Clinton.

 

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