Fonte:
[b]Girato clandestinamente, divide il mondo ebraico

ALDO BAQUIS

TEL AVIV [/b]
Ripreso in condizioni di semi-clandestinità nei rioni ortodossi di Gerusalemme, un film che per la prima volta discute con franchezza il dramma della omosessualità negli ambienti religiosi ebraici, «Occhi Aperti», è da ieri proiettato nelle sale cinematografiche di tutto Israele. Il momento della presentazione è critico, perché resta molto viva la impressione per il raid omicida compiuto un mese fa in un circolo gay di Tel Aviv (due morti, dodici feriti). Anche se il killer non è stato individuato, alcuni esponenti politici hanno collegato (forse frettolosamente) quell’attacco alla forte retorica dei rabbini contro la omosessualità.

Il regista Haim Tabakman non ha paura di possibili contestazioni di fronte ai cinematografi, anche se sa che il tema aprirà polemiche, come è avvenuto ad esempio per il libro «Il mio amato» di Yehoshua Bar-Yosef (pubblicato in Italia dall’editrice Giuntina), che ha affrontato il medesimo tema. Di certo si augura che il film apra un dibattito. «L’ebraismo ortodosso – spiega – ammette che taluni possano provare momentanei impulsi omosessuali, “debolezze” che andranno superate cercando sfogo in località diverse da quella di residenza. Ma quel mondo non accetta chi fra i suoi membri osi rivendicare in pubblico la propria omosessualità». Per elaborare le sue tesi ha scelto due attori promettenti: Ran Danker, l’idolo assoluto delle adolescenti israeliane, e Zohar Strauss. Molto popolari nell’Israele laico, erano del tutto sconosciuti nelle stradine contorte di Mea Shearim, la roccaforte ortodossa di Gerusalemme dove nessuno possiede apparecchi televisivi.

Là con grande perizia sono stati girati gli esterni. Le cineprese di Tabakman incuriosivano i passanti, del tutto ignari della trama del film. «Confesso che ho avuto paura», ammette Strauss. «Danker si era fatto crescere una barbetta convincente, sembrava proprio uno studente di collegio rabbinico. Ma la mia barba si vedeva che era incollata. Ho temuto di essere scoperto e aggredito».

Nel film Strauss è un macellaio sposato e con figli che assume la conduzione del negozio con la morte del padre. Attraversa dunque un momento di debolezza quando un ortodosso di passaggio, Danker, gli chiede lavoro. Prima fra i polli schiamazzanti nelle gabbie; poi nel retrobottega che era stato del padre; infine nelle abluzioni rituali in una fonte alla periferia di Gerusalemme i due ortodossi, discepoli dello stesso rabbino, scoprono la attrazione reciproca. Ammetterla in pubblico, nell’Israele del 2009, significherebbe per loro l’ostracismo sociale immediato ed assoluto.

L’unica via di uscita sarebbe la «fuga» verso il mondo laico, per loro privo di significato. Danker comprende di essere predestinato a peregrinare di comunità in comunità. Strauss sogna invece di integrare la omossesualità nella routine religiosa. In una prima sceneggiatura, Danker viene ucciso dai «Guardiani della moralita», nerboruti religiosi incaricati di reprimere la devianza sociale. Nel film, Tabakman ha poi preferito un finale più sfumato. Già presentato al Festival di Cannes, «Occhi aperti» è stato mostrato in anteprima dieci giorni fa a un pubblico di cento omosessuali e lesbiche religiosi di Tel Aviv. La loro reazione è stata commossa: quando le luci si sono accese si sono abbracciati e, ancora in platea, hanno recitato assieme le preghiere vespertine.

Nel frattempo la presentazione del film fa breccia nei media ortodossi, di solito restii ad affrontare questioni «scabrose». Prima a rompere l’omertà è stata una chat degli studenti dei collegi rabbinici (yeshivot). La domanda incendiaria è stata ieri lanciata senza pudori: «Ma da voi, nelle vostre yeshivot, esiste la omosessualità?» Le risposte, tutte anonime, si sono moltiplicate a vista d’occhio. Qualcuno nega, altri descrivono fenomeni di massa, altri ancora sostengono che «Occhi aperti» parla di una situazione molto estrema. Tutti concordano che è stato bene sconfiggere, per una volta, le ipocrisie e mettere le carte in tavola.Girato clandestinamente, divide il mondo ebraico

ALDO BAQUIS

TEL AVIV
Ripreso in condizioni di semi-clandestinità nei rioni ortodossi di Gerusalemme, un film che per la prima volta discute con franchezza il dramma della omosessualità negli ambienti religiosi ebraici, «Occhi Aperti», è da ieri proiettato nelle sale cinematografiche di tutto Israele. Il momento della presentazione è critico, perché resta molto viva la impressione per il raid omicida compiuto un mese fa in un circolo gay di Tel Aviv (due morti, dodici feriti). Anche se il killer non è stato individuato, alcuni esponenti politici hanno collegato (forse frettolosamente) quell’attacco alla forte retorica dei rabbini contro la omosessualità.

Il regista Haim Tabakman non ha paura di possibili contestazioni di fronte ai cinematografi, anche se sa che il tema aprirà polemiche, come è avvenuto ad esempio per il libro «Il mio amato» di Yehoshua Bar-Yosef (pubblicato in Italia dall’editrice Giuntina), che ha affrontato il medesimo tema. Di certo si augura che il film apra un dibattito. «L’ebraismo ortodosso – spiega – ammette che taluni possano provare momentanei impulsi omosessuali, “debolezze” che andranno superate cercando sfogo in località diverse da quella di residenza. Ma quel mondo non accetta chi fra i suoi membri osi rivendicare in pubblico la propria omosessualità». Per elaborare le sue tesi ha scelto due attori promettenti: Ran Danker, l’idolo assoluto delle adolescenti israeliane, e Zohar Strauss. Molto popolari nell’Israele laico, erano del tutto sconosciuti nelle stradine contorte di Mea Shearim, la roccaforte ortodossa di Gerusalemme dove nessuno possiede apparecchi televisivi.

Là con grande perizia sono stati girati gli esterni. Le cineprese di Tabakman incuriosivano i passanti, del tutto ignari della trama del film. «Confesso che ho avuto paura», ammette Strauss. «Danker si era fatto crescere una barbetta convincente, sembrava proprio uno studente di collegio rabbinico. Ma la mia barba si vedeva che era incollata. Ho temuto di essere scoperto e aggredito».

Nel film Strauss è un macellaio sposato e con figli che assume la conduzione del negozio con la morte del padre. Attraversa dunque un momento di debolezza quando un ortodosso di passaggio, Danker, gli chiede lavoro. Prima fra i polli schiamazzanti nelle gabbie; poi nel retrobottega che era stato del padre; infine nelle abluzioni rituali in una fonte alla periferia di Gerusalemme i due ortodossi, discepoli dello stesso rabbino, scoprono la attrazione reciproca. Ammetterla in pubblico, nell’Israele del 2009, significherebbe per loro l’ostracismo sociale immediato ed assoluto.

L’unica via di uscita sarebbe la «fuga» verso il mondo laico, per loro privo di significato. Danker comprende di essere predestinato a peregrinare di comunità in comunità. Strauss sogna invece di integrare la omossesualità nella routine religiosa. In una prima sceneggiatura, Danker viene ucciso dai «Guardiani della moralita», nerboruti religiosi incaricati di reprimere la devianza sociale. Nel film, Tabakman ha poi preferito un finale più sfumato. Già presentato al Festival di Cannes, «Occhi aperti» è stato mostrato in anteprima dieci giorni fa a un pubblico di cento omosessuali e lesbiche religiosi di Tel Aviv. La loro reazione è stata commossa: quando le luci si sono accese si sono abbracciati e, ancora in platea, hanno recitato assieme le preghiere vespertine.

Nel frattempo la presentazione del film fa breccia nei media ortodossi, di solito restii ad affrontare questioni «scabrose». Prima a rompere l’omertà è stata una chat degli studenti dei collegi rabbinici (yeshivot). La domanda incendiaria è stata ieri lanciata senza pudori: «Ma da voi, nelle vostre yeshivot, esiste la omosessualità?» Le risposte, tutte anonime, si sono moltiplicate a vista d’occhio. Qualcuno nega, altri descrivono fenomeni di massa, altri ancora sostengono che «Occhi aperti» parla di una situazione molto estrema. Tutti concordano che è stato bene sconfiggere, per una volta, le ipocrisie e mettere le carte in tavola.

 

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