Auschwitz, Shoà oltraggiata. Le parole di [b]Aaron Appelfeld[/b] e [b]Elie Wiesel[/b]
I commenti di [b]Angelo Pezzana,Davide Frattini,Maurizio Molinari,R.A.segre, Claudio Magris[/b]

[b]Fonte: Informazione Corretta
Testata:Libero-Corriere della Sera-La Stampa-Il Giornale
Autore: Angelo Pezzana,Davide Frattini,Maurizio Molinari, Cluadio Magris, R.A Segre
Titolo: «Auschwitz, Shoà oltraggiata»[/b]

La notizia del trafugamento della scritta [b]"Arbeit macht frei" [/b](il lavoro rende liberi) che campeggia sull'ingresso di Auschwitz, è su tutti i giornali. Pubblichiamo i commenti di Angelo Pezzana su LIBERO, Davide Frattini sul CORRIERE della SERA che intervista Aaron Appelfeld, forse il più grande scrittore israeliano vivente, Maurizio Molinari, che, sulla STAMPA riporta le parole di Elie Wiesel, anche lui sopravvissuto all'inferno del campo, R.A.Segre sul GIORNALE. Claudio Magris sul CORRIERE della SERA, un articolo che avremmo preferito non leggere e che commentiamo più avanti.

Ecco gli articoli:

[b]Libero-Angelo Pezzana: " Oltraggio alla Shoà: rubata la scritta di Auschwitz "[/b]

“Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi, la macabra scritta che sovrasta l’ingresso del campo di sterminio nazista di Auschwitz, è stata rubata la scorsa notte. E’ sotto quella insegna che sono passati un milione e mezzo di persone, la maggior parte ebrei, per essere condotti a morire nelle camere a gas. Secondo la polizia il cartello è stato svitato da una parte e strappato dall'altra. " Questo furto è stato compiuto da qualcuno che sapeva cosa voleva fare. Che doveva sapere come entrae nel sito del museo, come rimuovere la scritta e quali sono i percorsi delle guardie notturne " ha detto il portavoce del museo Jarislaw Mensfeld. Un furto dal significato chiaramente politico, un tentativo di aggredire, ancora una volta, il luogo per eccellenza della memoria dello sterminio, il cui nome incute dolore al solo pronunciarlo. Il primo tentativo si era verificato già nel dopoguerra, quando le autorità locali cercarono di tornare al vecchio nome polacco di Oswiecin, per cancellare, partendo dal nome, l’orrore che ricordava. Negli anni, fallito quel tentativo, e preservate tutte le strutture del campo perchè non andassero distrutte le prove di quanto era accaduto, vi furono altri tentativi di cancellare il ricordo della sua particolare spietatezza, realizzare la “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei d’Europa. Si cominciò, e spesso si continua tuttora da parte delle guide governative, col raccontare che in quel luogo morirono un milione e mezzo di “persone”, tralasciando di dire che erano in gran parte ebrei. E’ vero che nelle prigioni tedesche persero la vita politici, rom, omosessuali e chiunque fosse stato giudicato nemico del Reich, ma quel numero, sei milioni, pesava troppo sulla coscienza di chi aveva taciuto o, peggio, collaborato, per non cercare di sminuirne la portata. Ci fu anche un tentativo di debraicizzare Auschwitz con la costruzione di un convento di suore carmelitane, accanto al quale doveva essere eretta una croce di tale imponenza che sarebbe diventata inevitabilmente il simbolo più evidente del luogo. Per fortuna, un saggio alt, giunto infine dallo stesso Vaticano, impedì che il ricordo della Shoà venisse cancellato, per essere sostituito che un segno che avrebbe cancellato la verità storica di quanto vi era avvenuto. Adesso, un atto vile quanto maldestro – la scritta è subito stata sostituita con una copia che era stata preparata quando alcuni anni fa l’insegna era stata oggetto di restauri – ripropone un problema quanto mai attuale, il risorgere dell’antisemitismo con il nome di antisionismo, il che vuol dire continuare la guerra contro gli ebrei nell’unico modo che il mondo sembra approvare, sostituire i sentimenti antisemiti con l’odio verso Israele. Insieme a ciò, la presentabilità dell'essere negazionisti della Shoà, che infatti viene spesso visto come una espressione del libero pensiero. Il filosofo Gianni Vattimo, oggi deputato europeo per conto del partito di Di Pietro, non aveva dichiarato lo scorso anno, quando Israele era stato invitato a partecipare come paese ospite al Salone del Libro di Torino, che era ora di rileggere i “Protocolli del Savi di Sion” ? Lo Stato di Israele è nel mirino dei nuovi antisemiti, mascherati da antisionisti, che ne attaccano giorno dopo giorno la legittimità, ma il mondo sembra interessato unicamente alla costruzione di quello palestinese, poco importa se la nascita di quest’ultimo può signicare la distruzione di quello ebraico, come si augurano Ahmadinejad e i fondamentalisti islamici. Sono i sei milioni di ebrei vivi in Israele a far gola a chi ritiene che Hitler non ha portato a termine l’opera. Questo obiettivo va raggiunto per gradi, per renderlo meno evidente. E la distruzione della memoria della Shoà è uno degli strumenti per conseguirlo.

[b]Corriere della Sera-Davide Frattini: " L'ordine del comnadatnte Hoess e la sfida del fabbro-prigioniero ", intervista a Aaron Appelfeld[/b]

Aaron Appelfeld

Il prigioniero 1010 entra ad Auschwitz il 20 giugno del 1940, dissidente politico polacco, non ebreo, ficcato sui primi convo gli. Fabbro, artista del ferro, vie ne scelto dai nazisti per guidare la Schlosserei, l’officina che fab brica lampioni, inferriate, sbar re. Lì costruisce la cancellata, lì decide di piazzare quella «B» ro vesciata ( in Arbeit ), sommessa rivolta della grafia.

La scritta viene innalzata su or dine di Rudolf Höss, primo co mandante del campo. Per lui la frase simboleggia gli anni in car cere, sotto il governo di Weimar, quando il lavoro lo aveva aiutato «a sentirsi libero». Per Primo Le vi ( La Tregua ) sono «le tre paro le della derisione», che stanno sopra «la porta della schiavitù». Per Jan Liwacz rappresentano un problema di metallurgia e una sfida nascosta ai nazisti: in­castonare un errore per ribellar si alla loro spietata ironia.

«Gli aguzzini volevano imbro gliare le vittime fino all’ultimo. Illudere i morti viventi che sareb bero sopravvissuti. Lavorando. E’ diabolico. Lo slogan è stato po sto anche all’entrata di altri cam pi e nei ghetti. Con lo stesso obiettivo: uno scherzo cinico, de moniaco ». Quand’era bambino, Aharon Appelfeld è scampato al lo sterminio nascosto nei boschi dell’Ucraina, dov’era stato depor tato, muto dalla paura, paura di essere smascherato dalla banda di criminali che l’aveva preso con sé. «Temevo scoprissero che ero ebreo. L’accento, una pa rola sbagliata».

Cresciuto nel villaggio di Czer nowitz in Romania, fino a otto anni e mezzo il tedesco è stato la sua lingua madre, la lingua di sua madre. Adesso, la voce ridot ta a un sussurro, non ripete quel le tre parole, Arbeit Macht Frei, nei suoni che non può dimenti care e che non ha mai più pro nunciato. «I soldati hanno ucci so mia madre e ucciso in me la sua lingua. Quando la sogno, mi parla in tedesco, non potrebbe essere altrimenti. Ma questo ri guarda il mio rapporto con lei».

Ad Auschwitz lo scrittore, 77 anni, è andato in pellegrinaggio da Israele e ancora una volta è ammutolito. «Non è un luogo dove riflettere, non è possibile pensare Auschwitz o pensare ad Auschwitz. Non siamo in grado di assorbire la morte di un bam bino, come possiamo compren dere quella di un milione di pic coli? Così entri nel campo in si lenzio ed esci in silenzio. Dopo due ore tra quelle baracche mi sono sentito senza speranza: noi esseri umani, capaci di amare, as sistere gli amici, rispettare gli al tri, siamo delle bestie?».

Il salone dove Jan Liwacz for gia il simbolo dell’orrore nazista viene usato anche per i primi esperimenti con il gas Zyklon B. Racconta Artur Krzetuski (inge gnere, detenuto numero 1003): «Höss e i suoi ufficiali si sono presentati una mattina e ci han no detto di uscire. Il giorno do po abbiamo visto dei bidoni vuo ti, avevano testato il veleno con tro le cimici e altri insetti».

Tra i fuochi e le ombre della fonderia, i prigionieri cercano conforto in frammenti d’arte, il guscio di una bomba viene intar siato e trasformato in un vaso, una cartucciera diventa un can delabro. «I nazisti spolpavano questa ansia di vita — dice Ap pelfeld —. Prendevano i musici sti e mettevano insieme un’or chestra. Suonavano Mozart pri ma di venire ammazzati, non lo sapevano. Ancora una volta, co me con la scritta, i comandanti usavano sadicamente i desideri e le speranze umane, sfruttava no l’amore naturale per la bellezza».

Liwacz insegna agli altri e impara, uno dei compagni è soprannominato Kupferschmied, lo scultore del rame, un altro è un fabbro ebreo di Berlino. Ad Auschwitz resta fino al dicembre 1944, quando viene trasferi to a Mauthausen. So­pravvive allo stermi nio e ritorna nel villag gio di Bystrzyca Klo dzka, dove muore a 82 anni. Non ha mai smes so di lavorare il metallo. Il cancello principale è l’unico costruito dai prigionieri politici polacchi. La scritta viene smontata dai solda ti dell’Armata Rossa, il 27 genna io 1945, il campo viene liberato, la frase che porta all’inferno cari cata su un treno diretto a Est. Do vrebbe essere l’ultimo viaggio per le parole coniate nel 1872 dall’etnologo e linguista tedesco Lorenz Diefenbach, un nazionali sta che ispira le perversioni di al tri nazionalisti (scrive Höss nel­l’autobiografia, pubblicata postu ma: «La vita dietro le sbarre o dietro il filo spinato, alla lunga senza il lavoro diventa intollera bile, anzi la peggiore delle puni zioni »). L’ex prigioniero Euge niusz Nosal capisce il valore sim bolico dello slogan tramandato nel ferro e convince una guardia sovietica a consegnargli l’inse gna. Viene barattata per una bot tiglia di vodka e nascosta nel pa lazzo comunale di Oswiecim (Auschwitz in polacco), dove re sta fino al 1947, quando il cam po viene trasformato in un mu­seo.

«E lì è fondamentale che torni — commenta Appelfeld — per ché Auschwitz deve restare un memoriale intatto alle atrocità dei nazisti. Una lezione per l’umanità. Chi l’ha rubata vuole negare l’Olocausto, spera di can cellare le prove, sogna che un giorno si possa dire: non è mai successo, è un’invenzione degli ebrei».

[b]La Stampa-Maurizio Molinari: " Ora la Polonia dovrà garantire la sicurezza " intervista a Elie Wiesel

Elie Wiesel[/b]

«È un gesto molto vile che obbliga adesso la Polonia ad immaginare la protezione dei campi dalla minaccia dei vandali». Elie Wiesel, premio Nobel per la pace e sopravvissuto alla Shoah, legge con un misto di sorpresa e inquietudine il furto della scritta «Arbeit Macht Frei» (Il lavoro rende liberi) dall’entrata del lager di Auschwitz dove i nazisti sterminarono oltre un milione di persone, il 90 per cento delle quali di religione ebraica.
Qual è l’importanza storica della scritta che è stata asportata?
«Era la prima cosa che vedevamo noi deportati, all’arrivo nel lager. Per noi era il momento che segnava l’inizio dell’orrore e dello sterminio. È uno dei simboli che rappresentano cosa venne costruito dai nazisti di Hitler».
Che cosa vede dietro il furto?
«La viltà di chi lo ha compiuto».
Il direttore del Museo Yad Vashem di Gerusalemme ipotizza una matrice neonazista dietro l’asportazione della scritta. Lei è d’accordo?
«Non possiamo escluderlo. I neonazisti potrebbero avere interesse ad asportare la scritta. Ma non c’è certezza, potrebbero essere stati anche dei ladri intenzionati a ricattare le autorità polacche o a tentare di ricavare in qualche maniera del danaro, oppure potremmo trovarci di fronte a dei semplici vandali. Sinceramente mi è difficile immaginare l’identikit degli autori di un simile gesto, vigliacco, che offende non solo le vittime e i sopravvissuti del lager ma l’umanità tutta».
Comunque ora si pone un problema di sicurezza…
«Assolutamente sì».
Come è possibile farvi fronte?
«A mio avviso spetta alle autorità polacche deciderlo».
Ritiene che Varsavia abbia responsabilità per quanto è avvenuto?
«Non possiamo imputare nulla alla Polonia in merito a questo furto, che non era in alcuna maniera prevedibile. Nessuno poteva immaginarlo. Ma Varsavia adesso dovrà trarre le conseguenze di quanto avvenuto ed adottare in fretta i necessari rimedi per evitare il ripetersi di tali gesti».
A che cosa pensa in particolare?
«Alla necessaria creazione di un corpo di guardie polacche in uniforme incaricate di sorvegliare, 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, non solo il lager di Auschwitz ma anche tutti gli altri campi di sterminio e di concentramento che sorgono in Polonia, da Maidanek a Sobibor, che potrebbero essere oggetto di furti o atti di vandalismo. Alcuni di questi siti a tutt’oggi hanno una sorveglianza anche minore di quella di Auschwitz. Bisogna trovare una maniera per proteggere questi siti che tanto rappresentano per la memoria dell’Europa e dell’umanità tutta. Non mi sembra un compito molto difficile ma deve essere svolto in fretta».
Sarà necessario anche effettuare dei controlli sulle migliaia di visitatori che ogni anno si recano negli ex lager nazisti in Europa?
«Ciò che serve è porre fine all’attuale situazione che ha consentito a degli ignoti di entrare liberamente nel lager di Auschwitz nelle ore notturne ed asportare la scritta "Il lavoro rendere liberi" senza incorre in alcun tipo di controllo o sicurezza. Gli ex lager devono essere preservati per la memoria collettiva, affinchè rimangano a testimonianza di quanto avvenne».

[b]Corriere della Sera-Claudio Magris: " Meglio tirare la catenella "[/b]

Ecco un commento che avremmo preferito non leggere. Claudio Magris banalizza, sminuisce l'accaduto come se bastasse, come scrive, "tirare la catenella". Arriva a descrivere Marlene Dietrich per quello che non è stata, essendo l'attrice, ex tedesca diventata americana, una combattente contro il nazismo addirittora nelle zone di guerra. Per non dire del "calcio in culo" che Magris rievoca, dimenticando che invece era prassi abituale dei papi seguire questa piacevole tradizione nei confronti dei rabbini romani fin tanto che non cadde il loro potere temporale. Sapevamo delle simpatie di Magris per Di Pietro, mai avremmo però immaginato che la sua deriva culturale sarebbe arrivata fino a tanto. Chiuso con il tempo di " Lontano da dove ", dovremo abituarci ad un suo ben altro "stile".
Del pezzo di Angelo D'Orsi sul Manifesto, in prima pagina, sottolineiamo soltanto il cinismo del quotidiano comunista di affidare propio a uno come lui il commento sulla vicenda. Non riportiamo l'articolo, il tempo è prezioso. Ma per chi vuole approfondirne il motivo, consigliamo di leggere quanto pubblicato sullo "storico" nel nostro archivio, cliccando in Home Page, il suo nome nella finestra in alto a destra "cerca nel sito".
Ecco il pezzo di Magris:

[b]Claudio Magris[/b]

Quando nel dopoguerra, alcune tombe di un ci mitero ebraico in Germania furono sfregiate da scritte naziste, il Cancelliere Adenauer disse che si trattava della barbarie di qualche idiota che meritava solo un calcio in culo. Ritengo sia questa anche oggi la giusta e più efficace reazione al gesto di quel povero disgraziato — o, probabilmente, di quei poveri disgraziati — che hanno rubato la terribile scritta che introduce ad Auschwitz, « Arbeit macht frei », il lavoro rende liberi, versione novecentesca del dantesco «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Non credo che Adenauer intendesse minimizzare l’antisemitismo e oggi è ancor meno il caso di minimizzarlo. Ma la sua intelligenza politica capiva che non bisognava creare un clima che esaltasse, sia pur ovviamente condannandoli, gli autori di quel gesto, infame come lo è quello di oggi; che non bisognava dare loro l’idea di essere protagonisti di un’infera trasgressione, sinistri e protervi campioni del Male. È molto più sano e produttivo lasciar cadere le loro penose imprese nel cestino, come fece Marlene Dietrich quando un simpatizzante nazista le sputò in viso e lei, senza batter ciglio, si pulì la guancia con un fazzoletto lasciandolo poi cadere per terra. Gli autori di quel vandalismo inflitto al luogo in cui si è consumato uno dei più atroci abominî della Storia meritano solo disprezzo, silenzio e oblio; una campagna di proteste che li facesse sentire importanti e pericolosi fomenterebbe quel delirio.

È sempre difficile, naturalmente, capire quando, dinanzi al Male, è opportuno affrontarlo e denunciarlo a voce alta o quando è invece opportuno lasciarlo cadere nel vuoto, per farlo morire di asfissia, e semplicemente tirare la catenella dell’acqua nel water. C’è un detto viennese il quale dice che certe cose non bisogna nemmeno ignorarle, perché già ignorarle significherebbe dar loro troppo credito e importanza; uno sdegno altisonante sarebbe dunque come annaffiare una pianta velenosa, facendola così crescere.

L’antisemitismo è certo ancora, e forse nuovamente, in agguato, magari travestito da discussioni storico-accademiche, ed è questa sofisticata falsificazione che va presa di petto; l’antisemitismo, peraltro, rientra in quel crescente razzismo che serpeggia ovunque, contro tutte le genti diverse possibili. È caduto un muro morale, che aveva messo al bando una volta per tutte ogni barbarie razzista, e dunque in primo luogo quella antisemita.

Uno strisciante e trionfante relativismo etico respinge ogni valore assoluto— ogni valore che consideriamo assoluto— e dunque relativizza pure quel male assoluto per eccellenza che è Auschwitz, che rappresenta tutti gli efferati sterminî perpetrati contro l’umanità, dalla tratta degli schiavi ai Gulag di Stalin.

Quel vescovo lefebvriano che ha minimizzato la Shoah non è certo più intelligente dei teppisti che hanno tirato giù la scritta di Auschwitz, ma è più pericoloso. Non mi risulta che Giovanni Paolo II, quando alcuni imbecilli lo «accusarono» di essere «giudeo» per via di madre, abbia perso tempo a rispondere. Magari, se uno di quegli imbecilli gli fosse venuto a tiro, gli avrebbe mollato un ceffone, non potendo, in quanto Papa, dargli un calcio nel sedere.

[b]Il Giornale-R.A.Segre: " Furto ad Auschwitz, l'antisemitismo odia ancora"[/b]

Il furto della scritta in ferro arrugginito all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz è significativo. Non si tratta di una delle tante manifestazioni di antisemitismo spesso mimetizzate in anti-israelianismo. È qualcosa di più, perché si tratta di un atto altamente simbolico.
Anche se quel campo è stato teatro di assassinii di migliaia di innocenti non ebrei – polacchi, zingari, handicappati ecc. – il fatto che due milioni di ebrei vi siano stati gassati in quanto ebrei lo ha trasformato in un simbolo della Shoah, della tragedia moderna del popolo di Israele. Se c'era un modo per dare pubblicità ad un odio che si camuffa ma non si spegne era proprio rubare questa scritta, una scritta emblematica per due ragioni. Testimoniava nel suo significato letterale («Il Lavoro Rende Liberi») l'ipocrisia diabolica di un sistema nazista che, orgoglioso del suo disprezzo per gli ebrei, come razza inferiore, mentendo ironizzava sulla loro fine. Inoltre quella scritta arrugginita – mi faceva notare la guida che mi accompagnava un anno fa in questa visita degli orrori – conteneva un errore ottenuto col piegamento di una lettera «R» di ferro. Come se l’ignoto fabbro avesse voluto lanciare un avvertimento a chi entrava nel campo di attendersi una sorte ben diversa da quella annunciata. Piccolo, umile atto di disperata resistenza.
D’altra parte il taglio dei fili del reticolato, il furto compiuto in apparente tranquillità fa temere che nel clima del voyeurismo perverso presente in certi ambienti della società moderna, gli oggetti personali dei gassati, conservati nelle baracche del lager – cataste di occhiali, borse, capelli, protesi, giocattoli, libri di preghiera – possano anch’essi diventare un’attrattiva per alimentare un mercato dell’orrore.
La Polonia, custode del lager, sembra poco sensibile al problema dell'antisemitismo, come del resto altri Paesi dell'Est europeo dove di ebrei non ve ne sono più e i monumenti ebraici si sono trasformati in attrazioni turistiche (come il pletzel – la piazza – del quartiere ebraico di Cracovia, attorno alla quale ristoranti offrono menu «ebraici» da consumarsi al suono di musica yiddish). Del resto anche i nazisti, mentre trucidavano gli ebrei, preparavano materiale per un grande museo ebraico in ricordo di un passato «storico-archeologico» del Terzo Reich.
L’Europa – d’Oriente e di Occidente – nonostante gli sforzi di molti suoi governi non riesce a liberarsi del veleno dell’antisemitismo. La violazione dei cimiteri ebrei è diventata una “normalità” che non fa notizia. In quest'anno che finisce, nel giorno del Kippur è stato aperto il fuoco contro una sinagoga a Parigi, due ebrei in Danimarca sono stati feriti a Odense; nella civilissima Svezia un centro di cultura ebraico è stato incendiato due volte nella stessa settimana; a Londra due negozi di ebrei sono stati attaccati e sfasciati e una sinagoga parzialmente incendiata; violenze del genere sono successe in Belgio e – fuori d'Europa – in Australia, Brasile e a Chicago.
«Poiché non è più permesso di proclamarsi antisemiti – dice il ministro israeliano delle Telecomunicazioni Yuli Edelstein – gli antisemiti debbono trovare nuove forme e nuovi fori per diffondere il loro veleno. Il posto dell'ebreo da perseguitare è stato preso dall'israeliano che uccide i bambini, attacca le donne incinte, ha causato la guerra d’Irak e d’Afghanistan. Il piccolo Israel è stato addobbato dagli antisemiti come un Golia». In questo contesto più ampio, triste e pericoloso per le vittime quanto per i perpetuatori, deve essere compreso nella sua gravità il furto della scritta all'entrata del lager di Auschwitz. Rubare questo simbolo della malvagità ha senso solo se si vuole rubare anche la memoria dei morti.

 

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