[b]Fiamma Nirenstein

Il Giornale, 14 febbraio 2010[/b]

La teoria dei corsi e ricorsi è un po’ vecchiotta, ma quando mercoledì scorso un poliziotto palestinese al posto di blocco di Tapuah nell’West Bank ha pugnalato, uccidendolo, un soldato israeliano, tutta Israele non ha potuto fare a meno di ricordare quell’ottobre del 2000, quando la pace sembrava fatta, gli accordi di Oslo ancora non erano stati distrutti a Camp David, e tutt’a un tratto un poliziotto palestinese, in una di quelle speranzose ronde congiunte di forze armate palestinesi e israeliane insieme, sparò in testa a un soldato di Tzahal. Poco dopo, ci fu l’assalto alla tomba di Giuseppe, dove un soldato israeliano druso fu ferito a morte e morì dissanguato perché una torma jihadista non lasciò arrivare i soccorsi. Era l’anticamera dell’Intifada.

Oggi, i segnali somigliano a quelli antichi: due mesi fa, è stato ucciso un padre di sette figli, Meir Chai, e fra i tre assassini, tutti di Fatah, uno era un membro dei servizi di controspionaggio; nel novembre del 2007 tre poliziotti palestinesi uccisero un abitante di Shaveui Shomron, negli insediamenti. Un mese dopo due membri del Servizio Generale di Intelligence uccisero due autostoppisti israeliani. E non è finita qui. È ovvio che gli israeliani vivono un dilemma: aiutare la polizia che dovrebbe impegnarsi a battere Hamas, o piegarsi all’idea che le armi ai palestinesi alla fine si rivoltano contro di te? Una parte dell’opinione pubblica spinge a cessare la collaborazione. Ma il primo ministro Salam Fayyad, che è sempre molto accorto e che gode in particolare sia dell’aiuto americano che di quello israeliano, ha sfidato l’oltranzismo palestinese per condannare l’attentato dell’ufficiale della sua polizia. Ma basterà? Ci sono molti dubbi che questo possa fermare un’ondata che si gonfia rapidamente, e la cui origine è nella emulazione di Hamas, e ne lla confusa politica di Fatah e di Abu Mazen, attaccati apertamente anche da Fayyad, che cerca di tenerli fuori dalle casse e dalle cariche governative.

Ma Abu Mazen è ancora è il prediletto dell’Occidente, la carta su cui si punta per il processo di pace. Le facilitazioni messe in atto dal governo israeliano ai check point, la promozione dell’economia che ha portato lo Stock Exchange palestinese al più 12 per cento e l’estendersi di grandi quartieri palestinesi a nord di Bir Zeit (attaccata a Gerusalemme) e a nord di Gerico, segnalano un invito costante di Netanyahu a tornare al tavolo delle trattative. Ma Abu Mazen non accetta, e spiega che il cosiddetto freezing delle costruzioni nei Territori di 10 mesi annunciato peraltro da Netanyahu, non è completo.

Dunque per tenere aperta una situazione sempre più difficile gli americani hanno fatto un passo indietro: salvo imprevisti riprenderanno, come sedici anni fa, colloqui condotti tramite un intermediario. È triste, ma Israele ci sta, e può darsi che parlare a Bibi e a Mitchell senza contatto protegga Abu Mazen dalle accuse di essere al servizio dell’imperialismo yankee e israeliano. Ma Abu Mazen difficilmente vorrà parlare di cose sostanziali, per due ragioni: la prima è che il suo popolo è talmente radicalizzato con continue glorificazioni ufficiali del terrorismo suicida che invadono la stampa, la piazza, la tv e anche i programmi per i bambini, che non lo seguirebbe in una politica di accordi. Abu Mazen si è preoccupato della concorrenza di Hamas che ormai ha preso Gaza e potrebbe prendersi anche l’West Bank molto di più che non del processo di pace: ne va della sua sopravvivenza politica e forse fisica.

La seconda ragione, è che l’Autonomia Palestinese ha visto aprirsi in questi giorni il baratro senza fine di una grande discussione sulla corruzione grazie al giornalista palestinese Khaled Abu Toameh del Jerusalem Post e all’incredibile coraggio del suo interv istato Fahmi Shabaneh, ex capo della Commissione Anti Corruzione dell’Ap. Shabaneh, un avvocato, ormai inseguito da un ordine di cattura dell’Autorità Palestinese, rifugiatosi a Gerusalemme est, ha detto che nel momento in cui ha deciso di parlare per prima cosa si è comprato la tomba; egli sostiene che Abu Mazen si è circondato di tutti i corrotti che lavoravano per il suo predecessore Arafat, e che la vittoria di Hamas a Gaza sarà presto ripetuta a Ramallah dato il disgusto della popolazione.

Shabaneh dice molte cose, fra cui che il personale di Fatah ha sottratto personalmente 3,2 milioni di dollari donati dagli Usa per le elezioni parlamentari del 2006 poi vinte da Hamas. L’avvocato ha anche indicato lo scandalo sessuale testimoniato da un video molto esplicito: Rafik al Husseini, il capo della segreteria di Abu Mazen, viene sorpreso dalla polizia palestinese mentre estorce prestazioni sessuali alla sua segretaria e poi si lascia andare ad accuse di debolezza e c orruzione contro il suo capo. C’è da aspettarsi che mentre la gente se la ride per le nudità di uno dei suoi boss e commenta le ruberie subite ormai dai tempi di Arafat, con i suoi famosi conti in banca a Parigi, si alzi la temperatura antisraeliana. Dove la democrazia non c’è, funziona così: si focalizza l’odio su chi non c’entra niente.

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