[b]Di Haim Misgav
(Da: YnetNews, 30.9.10)[/b]

Tutti coloro che nei giorni scorsi si sono scagliati contro Avigdor Lieberman chiedendone le dimissioni o l’allontanamento dovrebbero ricordare che altri ministri degli esteri israeliani, in passato, si sono comportati in modo non dissimile. Tempo fa, ad esempio, era ministro degli esteri Shimon Peres, che lavorò dietro le spalle del suo primo ministro e in quel modo giunse ad elaborare i criticabilissimi Accordi di Oslo all’insaputa del primo ministro. Non riesco a ricordare con esattezza cosa pensassero, tutti coloro che oggi chiedono la testa di Lieberman, di quella mossa che Peres intraprese con l’aiuto del suo assistente, Yossi Beilin. Ad ogni modo, sono certo che non chiesero a Yitzchak Rabin di cacciare quei due, nonostante la folle avventura diplomatica in cui lo stavano trascinando.

Ho da fare una domanda a tutti coloro che oggi vorrebbero crocifiggere l’attuale ministro degli esteri per aver osato presentare il suo piano (tenendo presente che, allo stato attuale, non si tratta di niente più che di un piano): si sono soffermati almeno un momento ad esaminare questo piano? Per scoprire che, magari, ha anche una sua logica?
Cosa ci ha detto in sostanza Avigdor Lieberman? Che il “popolo palestinese” vuole, di fatto, uno “stato palestinese” privo di qualunque presenza ebraica (in tedesco si diceva Judenrein) in Giudea e Samaria (Cisgiordania), un altro stato analogo nella striscia di Gaza, e un altro stato ancora, simile ai primi due, al di là del fiume Giordano. Allo stesso tempo, i palestinesi (che non sono stati considerati né riconosciuti come popolo dalle altre nazioni del mondo almeno fino al 1967) vogliono che lo stato d’Israele non sia uno stato “ebraico”, bensì uno stato “bi-nazionale” (o “multiculturale”, per usare l’espressione cara agli anarchici della sinistra israeliana anti-sionista) nel quale vi sarebbe ben presto una larga maggioranza di arabi che già oggi avanzano rivendicazioni di “autonomia” culturale e nazionale, insieme a centinaia di migliaia di “profughi” (forse anche di più ) venuti a insediarsi nei villaggi e nelle case abbandonati dai loro nonni nel 1948. Ecco, questo è lo scenario che Avigdor Lieberman vorrebbe scongiurare.
Se nessun’altra soluzione è possibile, dice Lieberman, allora trasformiamo i due stati – lo stato di Israele e la Palestina – in due stati-nazione che ospitino solo le nazioni per cui sono stati istituiti. Questa soluzione è possibile soltanto procedendo ad uno scambio di aree popolate [«Spostando i confini, non la popolazione», come dice Sergio Della Pergola sul Sole 24 Ore, 2.10.10]: ad esempio, la cosiddetta area del Triangolo, nel nord di Israele, con le sue terre, le sue case e i suoi abitanti arabi verrebbe ceduta all’Autorità Palestinese , mentre aree come quelle di Gush Etzion, Ariel e Maale Adumim, con i loro abitanti ebrei, passerebbero a Israele. Avremo così confini chiaramente segnati. Gli ebrei si ritroverebbero su un versante del confine, gli arabi sull’altro versante. Il parlamento israeliano diverrebbe più omogeneo, senza i vari Ahmad Tibi e Taleb al-Sana. Cosa ci sarebbe di male?
Non sto dicendo che questa debba essere la soluzione, o che non esistano altre soluzioni possibili: come ad esempio una federazione dal mar Mediterraneo al fiume Giordano, con due organi parlamentari, uno ebraico e uno arabo, come avviene in altre parti del mondo. Non so quale sarebbe la soluzione migliore e più sicura per noi ebrei, che abbiamo già conosciuto un bel po’ di pogrom e olocausti, soprattutto per mano di nazioni europee ma anche per mano di musulmani. Ma di una cosa sono sicuro: la “soluzione” che ci viene offerta oggi, basata sull’attuale prospettiva “a due stati”, porterebbe alla scomparsa dello stato ebraico in un arco di tempo assai breve. Nessuna intesa sulla sicurezza potrà mai impedire agli iraniani, ad esempio, di schierare missili ai margini orientali delle principali città del centro d’Israele. L’hanno già fatto nella striscia di Gaza e nel Libano del sud, dopo che lo stolto ritiro delle Forze di Difesa israeliane da quelle aree. Ahmad Tibi e Taleb al-Sana ne sarebbero probabilmente contenti. Noi, invece, non dovremmo nemmeno accettare che venissero messe in discussione questioni così cruciali per la nostra stessa esistenza. E dunque non dovremmo neanche accettare che la posizione di Avigdor Lieberman venga squalificata in modo automatico, senza nemmeno prenderla in considerazione.

 

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