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La T’shuwà significa propriamente ritorno o anche risposta. Il pentimento per l’ebraismo si presenta dunque come un ritorno a una condizione di purezza originaria, o come una risposta alle sollecitazioni che vengono dalla coscienza. Si tratta di una vera e propria conversione, non tanto di un pentimento nel senso di cambiare idea, dicendo “ho sbagliato, non faccio questo, ma piuttosto faccio quello”. E se di conversione si tratta, bisogna cambiare completamente, convertirsi.

Ma convertirsi nella religione ebraica significa tornare indietro: a che cosa?

Si tratta di un movimento dell’anima che si volta indietro e ritrova la sua purezza originaria.

La conversione dal peccato alla virtù non è quindi una liberazione dal peccato originale. Gli ebrei secondo la tradizione rabbinica non accettano l ‘idea di un peccato originale, idea che appare invece presente nell’ ellenismo in testi apocrifi del mediogiudaismo e viene poi accolta da Paolo di Tarso: “Perciò, come a causa di un sol uomo il peccato entrò nel mondo e attraverso il peccato la morte, e così la morte dilagò su tutti gli uomini per il fatto che tutti peccarono …” [Paolo di Tarso, Rm. 5, 12].

In un famoso passo talmudico è scritto: “felice l’uomo la cui ora della morte somiglia all’ora della nascita: come nascendo egli è esente da peccato, possa esserne esente quando morirà”. La preghiera del mattino, appena svegli, inizia così: “Signore, l’anima che mi hai dato è pura …”. La contaminazione originaria dell’uomo esemplificata nel racconto di Adamo, di Eva, del serpente e del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, non è considerata una colpa originaria. Viene piuttosto utilizzata come spiegazione della presenza del dolore e della sofferenza, come costitutivi della natura umana. La trasgressione di Adam è considerata per certi versi necessaria a che egli diventasse responsabile delle proprie azioni, simile cioè a Dio, come si legge in Genesi 3, 22: “Poi il Signore disse: ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, in quanto conosce il bene e il male…”.

Se dunque nell’ebraismo non c’è la concezione del peccato originale, c’è piuttosto l’idea che l’uomo abbia un istinto che lo porta alla spiritualità e a compiere il bene e un istinto che lo porta alla carnalità e a compiere il male. Il primo istinto deve prevalere e controllare il secondo. Nonostante sembri una concezione ottimistica, l’uomo è considerato in realtà malvagio per natura, non ci si illude. Però nel contempo la caratteristica che fa dell’uomo un essere unico è quella di avere la consapevolezza delle proprie colpe. Bisogna sempre tener presente che l’uomo è l’unico animale che prova rimorso per le proprie colpe e quindi le avverte come tali.

Questo è ben presente nei profeti, dove talvolta prevale il pessimismo sulla natura umana. Isaia considera: “Lasciate perdere l’uomo, che non ha che respiro nel naso, per che cosa sarebbe da considerare?[2, 22]”.

L’anima è portata al peccato, e così ecco la necessità della figura del pentimento, della T’shuwà. Dunque si istituisce nel mondo ebraico la coppia peccato – pentimento, e non quella peccato – punizione. Le parole conclusive del capitolo 18 di Ezechiele sono chiarissime a questo proposito: “Perciò Io giudicherò ciascuno di voi secondo le sue azioni, o casa d’Israele, dice il Signore. Ritiratevi da tutte le vostre colpe e inducete altri a fare altrettanto, e allora il peccato non vi sarà d’inciampo. Gettate lontano da voi tutte le colpe che avete commesse, fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché volete morire, o casa d’Israele? Io non desidero che chi si era reso degno di morte muoia, dice il Signore. Inducete alla penitenza e vivrete[30-32]”.

Creata prima del mondo, insieme con la Torà, con il trono della gloria, con il paradiso e con l’inferno, con il Santuario e con il Nome del Messia, la T ‘shuwà ha un’importanza eccezionale nella visione religiosa e etica ebraica. Alla T’shuwà è dedicata la festa del Kippur, sono dedicati i giorni terribili che vanno dal Capo d’anno all’espiazione dei peccati. Ma anche altri momenti liturgici sono dedicati alla T’shuwà: il rituale detto Tachannun, nella preghiera del mattino di tutti i giorni feriali, che si fa solennemente due volte a settimana, il lunedì e il giovedì, comprende la confessione dei peccati e la T’shuwà.

Il pentimento si accompagna alla contrizione per il peccato (hatarah), alla confessione dei peccati (widduy) e alla T’shuwà vera e propria. Non c’è un momento preciso per la T’shuwà, che va invece fatta ogni giorno, secondo il detto: “pentiti un giorno prima della morte”, che spinge a pentirsi ogni giorno perché può essere quello che precede la morte.

Il pentimento non è sufficiente per ottenere il perdono dagli altri uomini, mentre è sufficiente per ottenere il perdono di Dio. In epoca di pentitismo, come quella che viviamo nella nostra confusa situazione giuridica, politica e morale, non si comprende che il perdono è un fatto squisitamente religioso, è a Dio che devo chiedere perdono, mentre agli uomini, oltre a chiedere scusa, va resa giustizia. Nella legge ebraica chi fa un torto all’ altro uomo è tenuto prima di tutto a risarcirlo. Poi può cercare di ottenere dall’altro uomo una riconciliazione, una pace.

Il pentimento (T’shuwà) può essere individuale, e fa parte del rapporto che ciascuno ha con il suo Dio, e collettivo, cioè la comunità si raccoglie nelle occasioni rituali per fare la confessione collettiva dei peccati e chiedere il perdono a Dio. Non si può far T’shuwà se non si sono sciolte le controversie con gli altri uomini.

Abbiamo visto che nell’ebraismo c’è l’appello alla responsabilità individuale e alla libertà delle scelte che si fanno, accompagnato dall’idea che l’uomo, pur dotato di un istinto cattivo per natura, è liberamente in grado di controllarlo e sottometterlo al bene. Ma il comportamento umano è davvero libero? È davvero libera la scelta che fa l’uomo, posto di fronte al bene, alla vita e al male, alla morte, come in molti luoghi della Bibbia, penso al Deut. 30?

In realtà nell’ebraismo la libertà dell’uomo si scontra con la prescienza di Dio: secondo Maimonide (10 articolo di fede) Dio conosce tutte la azioni e tutti i pensieri degli uomini, e secondo il Pirqe Avot 5, 6 “tutto è previsto, ma la libertà è lasciata”. Nella tradizione ebraica dunque si mantiene il paradosso di un uomo libero di agire, ma che compie soltanto quello che è già predestinato da Dio.

La condizione paradossale della presenza della totale libertà umana e nel contempo della conoscenza da parte di Dio di tutto ciò che fa l’uomo, è rappresentata da alcune storie di pentimenti famosi.

Nel libro dell’esodo troviamo spesso il Faraone che si pente, di fronte all’ incalzare dei miracoli che minano la salute del suo popolo e la stabilità del suo regno. Ma è un pentimento effimero, perché il suo cuore viene indurito dal Signore. Questo ci riporta al problema del limite della libertà umana di fronte alla volontà di Dio. Il cuore del Faraone è indurito perché così i figli degli ebrei schiavi in Egitto potranno raccontare i miracoli a cui hanno assistito perché siano poi raccontati ai figli dei figli in ogni generazione. La liberazione dall’Egitto è infatti opera esclusiva del Signore.

Nel midrash il Faraone si pentirà davvero, nel momento in cui veniva travolto dalle acque del Nilo, e sarà trasportato a Ninive, dove lo troviamo come re nella storia del profeta Giona.

Il libro di Giona viene letto durante la festa del Kippur, perché in lui è rappresentata la condizione del peccato e del perdono.

Giona è chiamato a profetizzare la distruzione di Ninive, grande città di peccatori, che devono fare T’shuwà. Ma stranamente egli scappa per mare, in nave, allo scopo di sottrarsi a questa profezia. Quindi alla colpa dei cittadini di Ninive, e alla loro T’shuwà, si somma quella del profeta. Perché scappa Giona? Seguiamo le interpretazioni dei Maestri. Due sono le spiegazioni possibili: una è l’umiltà, cioè il credere di non essere all’ altezza del compito, ma questa viene esclusa, perché sarebbe stata subito perdonata da Dio. La verità è un’altra, ben più drammatica. Giona sa che Ninive è una città empia, ma che i suoi abitanti sono pronti al pentimento. Sa anche che gli ebrei di Israele sono empi, come i cittadini di Ninive, e non sono portati al pentimento. Sa quindi che se gli abitanti di Ninive si pentiranno, questo dimostrerà che Israele è in pericolo, e rischierà di subire la condanna del Signore (e questo in effetti succederà: gli ebrei spariranno dopo l’invasione degli Assiri, e le dieci tribù di Israele si perderanno).

Il Signore però era già a conoscenza della posizione di Giona. Infatti era stato creato già dai primi tempi della creazione il pesce che avrebbe inghiottito il profeta. Inoltre la punizione di Giona non è la morte. Se il profeta avesse violato l’ordine di profetizzare, egli avrebbe avuto come punizione la morte. Evidentemente vene considerata con clemenza l’attenuante che Giona intendeva proteggere il popolo d’Israele con il suo comportamento e quindi salvare la Gloria del Signore.

Nel piccolo e denso libro di Giona, sono presenti altre figure significative di non ebrei che si convertono seguendo la vicenda di Giona: sono i marinai, presentati come dei giusti, che pregano per la salvezza i loro idoli durante la tempesta scatenata da Dio. Ma quando si accorgono che Giona dorme sotto coperta, capiscono che c’è sotto qualcosa, e venuti a conoscenza della storia, si convertono all’ebraismo, secondo le interpretazioni dei Maestri. La loro non è propriamente T’shuwà, in loro non c’è colpa, anzi, fanno una figura migliore di quella del profeta. Essi si convertono, perché riconoscono la potenza del Dio di Israele. Questo è raccontato dal midrash.

Consideriamo ora i due aspetti della conversione: quella dei gentili all’ ebraismo, e quella che abbiamo chiamato T’shuwà. La conversione dei non ebrei all’ebraismo avviene sulla base di una scelta non necessaria per la salvezza, ma che viene fatta per l’intervento miracoloso. La scelta della T’ shuwà è invece una scelta di pentimento, necessaria per restare accanto al Signore. Ma è possibile la T’shuwà anche per i gentili, senza una loro conversione all’ebraismo? Sicuramente, come appare dal libro di Giona: se la T’shuwà è una forma di conversione, che nel caso degli ebrei consiste nel ritorno alla volontà di Dio, nel caso dei non ebrei può consistere nell’ abbandono delle pratiche di violenza nei confronti del prossimo e nel risarcire i danni fatti, ottemperando alla giustizia, come nel caso della T’ shuwà degli abitanti di Ninive (e questo equivale alla scelta di ottemperare la volontà di Dio). Tale scelta è in grado, come per gli ebrei, di annullare il decreto di distruzione della città, come è segnalato in Giona 3, 9 – 10.

Vediamo ora di risolvere altre questioni del libro di Giona: che cosa rappresenta il sonno del profeta? E il pesce?

Io credo che in questa vicenda drammatica sia presente il paradosso di questa libertà umana sottoposta alla provvidenza di Dio. Giona sa che la vicenda si concluderà comunque con una sconfitta. Sarà la vittoria della T’ shuwà, sarà la vittoria della misericordia di Dio, sarà comunque e sempre la vittoria del Signore. Ma sarà anche la condanna per il popolo d’Israele. La prescienza profetica lo spinge a chiudersi, fuggire: ma si può fuggire da Dio?

È evidente però il pentimento del profeta, sollecitato dall’estrazione a sorte e dal comportamento dei marinai, che mostrano tutta la loro pietà e rettitudine. Il pentimento di Giona era stato previsto dal Signore, che gli manda il pesce. Quando il profeta verrà gettato in mare, il pesce lo salverà. Nella simbologia la situazione di impossibilità di uscita per l’ uomo Giona di fronte alle leggi della storia e alle vicende che necessariamente si svolgeranno, è rappresentata dal mare. Nel midrash, questa situazione di mare, di stallo, di vuoto e di angoscia e rappresentata dal mostro che signoreggia sul mare, che non è il pesce che salva Giona, ma il Leviatano, il mostro marino destinato ad essere il cibo dei giusti nel mondo che verrà, che è previsto sarà macellato da Giona. Giona “farà fuori” il mostro marino.

Tuttavia la vicenda di Giona si presenta come una sconfitta della libertà umana, la sua è una lotta impari, destinata a soccombere, perché la libertà non è possibile contro la volontà di Dio. Si può essere liberi solo se si segue la Sua volontà, se si segue il decreto stabilito cioè se si è in pace con Dio. Ma questa era anche la posizione di Spinoza.

La T’shuwà ha anche un altro aspetto importante: quello di essere collegata alla gheullà, alla redenzione. Va tenuto presente che la T’shuwà ha una dimensione individuale, necessariamente, in cui il singolo si rivolge personalmente a Dio, ma ha anche una dimensione collettiva, sia liturgica , si pensi alla preghiera, sia sociale, come appare dalla conversione degli abitanti di Ninive. Si dice che quando gli ebrei faranno T’shuwà, osservando il precetto del Sabato, allora arriverà il Messia. Si pensa anche che la T’ shuwà renderà meno difficile l’avvento del Messia, che si prevede preceduto da grandi calamità, le cosiddette doglie del parto messianico.

Abbiamo visto il dilemma di Giona, abbiamo visto la sua lotta con il Leviatano, con la difficoltà di accettare il volere di Dio, con la difficoltà di sottomettere la libertà umana ai decreti del Creatore. La T’ shuwà rappresenta in questa vicendala soluzione dell’antagonismo con il Signore. Di fronte al decreto, al comando di Dio, l’uomo fa T’shuwà: questo significa che egli dà la risposta. Chiamato da Dio, risponde. Infatti abbiamo visto che il significato di T’shuwà è anche quello di rispondere. L’ espiazione, il pentimento, il digiuno, la vergogna per la colpa commessa, tutto ciò non è altro che la risposta a Dio che liberamente l’uomo è in grado di dare. Ed essere chiamato e poter rispondere è un grande privilegio, come capì Abramo, che alla chiamata del Signore rispose: “Eccomi!”.

 

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