Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

Testata: Informazione Corretta
Data: 12 agosto 2011

 

Cari amici,

per voi chi è peggio, un mascalzone o un imbecille? Il terrorista o un giullare che lo esalta, stando comodo davanti alla sua scrivania, nel suo teatro, nella sua redazione? Io ovviamente tempo più il primo, ma disprezzo più il secondo.

Mi sto riferendo, forse l’avete capito, all’opera di Rossini “Mosè e l’Egitto” andata in scena ieri sera al Rossini opera Festival di Pesaro, in cui, come avete letto anche su questo sito, il regista inglese Graham Vick ha rappresentato il più grande profeta di Israele come un Bin Laden, inscenando in platea anche un attacco terroristico (naturalmente di Ebrei, chi altro è terrorista in Medio Oriente?), con il Mar Rosso che diventa “il muro dell’apartheid” e altre stupidaggini propagandistiche del genere, naturalmente senza alcuna base né nel testo biblico né nel libretto rossiniano. Violenza gratuita al senso, terrorismo verbale. Uno schiaffo in faccia all’ebraismo. A cento metri da quel ghetto di Pesaro che fu tormentato dall’antigiudaismo papale e definitivamente svuotato dai nazisti.

Che Mosè abbia per la religione ebraica una posizione analoga a quella di Maometto per l’Islam, illustra la differenza fra le due culture: niente minacce di morte per il dissacratore, niente bombe, per carità, solo qualcuno che se n’è andato per protesta dalla prova generale e qualche protesta dal loggione. Avesse provato a fare qualcosa del genere su Maometto, il nostro allestitore, se la sarebbe vista brutta. Naturalmente è giusto così. Vick dice la sua e noi diciamo la nostra, senza violenza, ma con tutta l’asprezza polemica che ci vuole.

Mosè è però anche qualcosa di più del profeta di Israele: è l’archetipo non solo ebraico, non solo occidentale, della liberazione dei popoli e del tormentato rapporto degli esseri umani con la divinità personale del monoteismo: una personalità straordinaria (o se preferite un potentissimo e densissimo personaggio), uno di quelli che ha lasciato il segno più grande del nostro immaginario, nell’arte e nella religione, nel pensiero e nei rapporti fra gli uomini. Tutta la civiltà moderna non sarebbe concepibile senza la teofania del roveto, il confronto nobile e chiaro col Faraone, la Rivelazione e quel che ne è seguito nel deserto. Spazzatura per Vick, interessato solo alla sua piccola propaganda politica “corretta” e revisionista. Mosè per l’allegro allestitore inglese, non è altro che un terrorista; se esaltiamo lui, deve piacerci anche Bin Laden.

E’ un terrorista Graham Vick? Un antisemita? Un “cattivo”? No di certo. A me sembra un piccolo burocrate di quel mestiere poco serio che è diventato la regia d’opera (poco più che un coordinamento di scenografia costumi e mimi, senza influenza reale sulla dimensione artistica vera dell’opera, che è quella musicale). Vick ha fatto carriera applicando la facile regola per cui il significato delle opere vada rovesciato rispetto al libretto.  Ha messo in scena Manon Lescaut in uno spazio dominato da pupazzi di peluche, abitata da mimi sotto mascheroni e in pantaloni corti. Perché? Non si sa, probabilmente così “è più interessante” (per qualche minuto). Il suo “ratto del serraglio”, chissà per quale motivo si svolge in un teatrino da bambole, che poi crolla; l'”Aida” non è ambientata in Egitto bensì sotto i piedi blu a stelle dorate  di una Statua della libertà diroccata, che naturalmente per gli spettatori no global allude all’imperialismo alla caduta dell’America – molto politically correct; “Macbeth” ha a che fare con un incidente automobilistico. Eccetera eccetera. Intellettualmente desolante, musicalmente ininfluente. Decorazione vuota, fatta per compiacere i gusti di un pubblico di cui si presume una forte tendenza ad addormentarsi. Sono tutte idiozie che hanno la prosopopea di presentarsi come nuove e intelligenti. Purtroppo il sistema dell’opera, che si annoia da decenni del suo oggetto, favorisce questa piattezza culturale, questa finta spregiudicatezza priva di qualunque idea seria sul testo, queste trouvailles da trovaroba afflitto da budget troppo alti.

E quando si arriva agli ebrei, alla loro uscita dall’Egitto, a quel momento centrale del nostro senso della libertà che è l’impegno divino per la liberazione di un popolo, che cosa c’è di più banalmente idiota, qual è il luogo comune più diffuso fra i cultori del politically correct, se non invertire le parti e far capire che i veri ebrei di oggi sono i palestinesi (e naturalmente gli ebrei in carne ed ossa sono nazisti, oppressori e genocidi)? Questo naturalmente ha messo in scena il confezionatore di immagini di questo spettacolo: non una grande prestazione intellettuale, qualunque bravo neocomunista-neonazista-integralista cattolico gli avrebbe potuto suggerirgli la lezioncina. Con la differenza che loro sono nemici sul serio, ci credono, sono perfino temibili in quanto complici dei terroristi. Ricordiamoci quel vescovo che portava ai terroristi le armi nel baule della sua macchina diplomatica. Vick no, non ha neppure questa convinzione, tocca solo le armi giocattolo, è solo un piccolo burocrate teatrale, che mette su la sua diffamazione ben leccata, incassa il cospicuo assegno che gli pagano i politici locali di Pesaro e se ne va a confezionare un’altra provocazione più o meno insensata altrove. Stupido o cattivo?

Il caso di questa regia non è molto interessante. La uso solo come esempio. Ci colpisce solo perché per il nostro paese, che è molto meno antisemita della Gran Bretagna e  in genere dei paesi nordici, si tratta di un evento inconsueto, perché i nostri registi hanno più rispetto dei testi, perché siamo abituati a non sputare sulla Bibbia. In un festival scozzese o svedese sarebbe la regola. La domanda semmai è quella sull’ambiente da cui Vick proviene, su quel mondo di funzionari della cultura (registi, giornalisti, artisti visivi, quadri politici e sindacali) che ritengono di dover portare ogni tanto il proprio lip-service (il servizio delle labbra, come dice l’espressione inglese), la propria pietruzza alla religione antisionista/antisemita corrente, o ad altre fedi correlate sulla cattiveria del capitalismo, la violenza alla natura, la bontà ingenua degli immigranti in quanto tali, l’amore universale come “panacea di tutti i mali”. Sono cattivi o stupidi? Mascalzoni o storditi? Io credo la seconda cosa, sono pieni di buona volontà, pensano davvero che a parlar male di Israele e degli ebrei si faccia la cosa più naturale e “corretta” del mondo. Non hanno passioni vere (a parte l’odio per qualche politico del villaggio), non hanno intelligenza, non hanno neanche la vitalità sufficiente ad essere davvero antisemiti. Sono morti dentro. Non c’è mai stata nella storia della società occidentale una cultura morta e vuota come quella che amministrano loro, i loro giornali, i loro teatri, le loro mostre d’arte, le loro case editrici. Non producono un romanzo, un quadro, una musica capace di durare più di qualche settimana.  Sono istupiditi dai media con la ridicola pretesa di esser loro superiori. Desiderano oscuramente la morta del sistema che li alleva, come i lemming che si buttano nell’Oceano a frotte.

Ma questo non li assolve.  Perché come disse una volta Karl Kraus, che di antisemitismo se ne intendeva avendolo prima acidamente praticato contro se stesso e poi visto in faccia nella forma estrema del nazismo, che non l’abbiano fatto apposta, o che non sapessero ciò che facevano, è solo un’aggravante.

 

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