Rottura delle relazioni diplomatiche, interruzione della cooperazione militare, interruzione del commercio di articoli riguardanti la difesa, aumento della presenza navale militare nel Mediterraneo orientale, possibile visita ufficiale di Recep Tayyip Erdogan a Gaza. Sono queste le sanzioni decise unilateralmente dalla Turchia contro Israele. E’ la più grande crisi diplomatica fra due democrazie liberali dai tempi del braccio di ferro degli anni ‘90 fra la Turchia (ancora) e la Grecia per le isole dell’Egeo. In questo caso non abbiamo una prova di forza fra due alleati della Nato, ma fra il membro più orientale della Nato e il suo principale partner mediorientale. Se la crisi procede, rischia di sfaldarsi quello che abbiamo sempre considerato l’asse della sicurezza occidentale in Medio Oriente. Ma proprio perché la posta in gioco è così alta, è difficile che la crisi si prolunghi troppo o si aggravi ulteriormente. Se la statistica vuol dire qualcosa, in tutto il sanguinoso XX Secolo non si sono mai combattute guerre fra due democrazie liberali. Quindi sono molto basse, pressoché nulle, le possibilità che fra Ankara e Gerusalemme si arrivi allo scontro militare.


Ricordare la causa della crisi diplomatica attuale permette di constatare quanto (poco) sia rischiosa. La Turchia esige da Israele le scuse ufficiali per l’uccisione di 9 turchi (di cui 8 con cittadinanza turca) da parte dei commando israeliani durante l’abbordaggio della motonave Mavi Marmara, in acque internazionali, al largo della costa di Gaza. La Mavi Marmara faceva parte della Freedom Flotilla, salpata dai porti della Turchia, ed era armata dall’organizzazione non governativa (sempre turca) Ihh, che Israele considera collegata al gruppo terrorista Hamas. Come è noto, lo scopo della Freedom Flotilla era quello di raggiungere Gaza per portare materiale civile, aiuti umanitari e solidarietà politica, violando il blocco imposto da Israele dopo che la città palestinese è finita sotto il dominio di Hamas. La marina israeliana ha fermato in alto mare le sue navi. La Mavi Marmara non ha risposto agli avvertimenti ed è stata abbordata. Il team di abbordaggio è stato aggredito da volontari dell’Ihh armati di spranghe, coltelli e qualsiasi “arma impropria” contundente” fosse nelle loro mani. Per paura di esser sopraffatti, dopo aver subito alcuni feriti gravi, nella confusione della rissa, gli israeliani hanno aperto il fuoco facendo nove morti. Questa è la dinamica degli eventi, resa nota da tutti gli organi di stampa e documentata da diversi filmati.

Stupisce, prima di tutto, che la Turchia pretenda le scuse ufficiali di Israele adesso, a 15 mesi dagli eventi. Quel che abbiamo ricordato qui sopra, infatti, risale al 31 maggio 2010. Già allora, Ankara aveva adottato serie contromisure diplomatiche e per tutto l’anno scorso i rapporti con lo Stato ebraico erano ridotti a livello di segreterie. A rivitalizzare la crisi in questa settimana è stato un rapporto dell’Onu che, paradossalmente, mirava a calmare le acque, invitando le due parti a ripristinare normali relazioni diplomatiche. Il Rapporto Palmer, non ancora pubblicato ufficialmente, ma ampiamente filtrato alla stampa, è frutto di un’indagine internazionale sui fatti della Freedom Flotilla. Prende atto sia del torto subito dai turchi che delle preoccupazioni israeliane. Condanna lo Stato ebraico per “eccesso dell’uso della forza”, sia per aver condotto l’abbordaggio in acque internazionali e a grande distanza dalla linea di blocco imposta dalla flotta, sia per l’uso di armi da fuoco contro militanti armati di armi bianche. Tuttavia, lo stesso rapporto, riferisce (documentandole) le preoccupazioni di Israele sulla natura ostile dell’Ihh e ritiene legittimo il blocco imposto a Gaza per ragioni di sicurezza nazionale. Evidentemente la Turchia e l’Organizzazione per la Conferenza Islamica (Oci), che si aspettavano una condanna Onu “senza se e senza ma”, sono rimaste molto deluse dal rapporto e non hanno fatto mancare la loro protesta ad alta voce. L’escalation di misure turche contro Israele, dunque, si spiega: delusa da una mancata condanna Onu, la Turchia si pone a capofila dei Paesi musulmani dell’Oci nella protesta contro lo Stato ebraico.

C’è di più. Nell’ultima decade di settembre si preparano due eventi internazionali che possono far precipitare la crisi mediorientale e obbligare, ancora una volta, tutti i Paesi a prendere una posizione da una parte o dall’altra. In occasione dell’apertura della prossima Assemblea Generale dell’Onu, la Palestina cercherà di accreditarsi come Stato indipendente. Contemporaneamente, la terza conferenza antirazzista “di Durban” (che si terrà a New York, a ridosso dell’Assemblea Generale) cercherà ancora una volta di sancire l’equiparazione morale fra sionismo e razzismo. E, per questo motivo, già molti Paesi occidentali (fra cui l’Italia) hanno annunciato il loro boicottaggio. La Turchia, in entrambe le occasioni, ha tutta l’intenzione di prendere una netta posizione a favore dello schieramento arabo e islamico. La sua lite con Israele è propedeutica alle future battaglie in sede Onu.

Il governo di Ankara deve anche rispondere a (e distrarre l’opinione pubblica da) due gravi crisi, una interna e l’altra internazionale. Quella interna è la recrudescenza, con attentati e manifestazioni violente, dell’indipendentismo curdo. Agli attacchi contro i suoi militari, l’esercito turco ha risposto con un nuova campagna di bombardamenti, nell’Anatolia orientale e nell’Iraq settentrionale. Le operazioni hanno causato circa 160 morti nel mese di agosto. La crisi internazionale è ancora più complessa: a causa della sanguinosa repressione in Siria, alle porte di casa, ha rotto le relazioni con il regime di Assad. Questo provoca, indirettamente, un raffreddamento di quelle con gli alleati della Siria: il Libano e l’Iran. Quest’ultimo, poi, è adirato con Ankara anche per altri motivi: questa settimana, l’installazione di radar anti-missile della Nato in territorio turco ha provocato la protesta di Teheran. Per rilanciare il suo ruolo-guida nel Medio Oriente la Turchia sceglie dunque di giocare la tradizionale carta anti-israeliana. Anche per ingraziarsi i nuovi governi rivoluzionari arabi, in Egitto soprattutto, dove l’antisemitismo è dilagante.

D’altra parte è facile, in questo momento storico, sparare contro il governo di Gerusalemme senza subire alcuna risposta da parte della comunità internazionale e della stessa opinione pubblica israeliana. I media hanno già trovato il loro capro espiatorio nel governo Netanyahu, “politicamente scorretto” perché liberista e determinato nella difesa del sionismo. Si attribuisce tutta la colpa di questa crisi, in particolare, al “falco” ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Si dà ragione al governo Erdogan quando parla di necessarie sanzioni contro un Israele che si comporta come un “bambino viziato”. E un’opinione pubblica occidentale chiusa nelle sue fantasie ideologiche, guarda agli israeliani che protestano contro il caro-casa (compresi i coloni che non vogliono scendere a compromessi sulla costruzione di nuove case in Cisgiordania?) come i protagonisti di una futura “primavera ebraica”, seguito di quella araba.

 

pubblicato su Libertiamo il giorno 7 settembre 2011

 

2 Responses to Perché proprio adesso la Turchia rompe con Israele

  1. ferruccio ha detto:

    Bell’alleato che ci troviamo ad avere in un area così strategeticamente importante per l’Occidente e pensare che lo si vuole far aderire all’Europa. La Turchia in forte espansione economica sembra voler ricreare il vecchio impero ottomano , e per questo vuole accreditarsi presso le nuove torme islamiche come leader antiIsraele buttando all’ortiche decenni di collaborazione con lo Stato d’Israele. Mi auguro che si riesca a sanare il dissidio prima di arrivare ad un punto di non ritorno. In un mondo in preda ad una crisi economica globale a qualcuno potrebbe saltare in mente di risolvere i problemi scatenando un conflitto mondiale. E’ già successo!

  2. Loris Facinelli ha detto:

    Sempre al fianco di Israele!!!

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