“I motivi di preoccupazione superano quelli di ottimismo”.
Così ha esordito il ministro degli Esteri Franco Frattini, parlando di Medio
Oriente, al convegno “Israele e palestinesi, la battaglia dell’Onu e il
processo di pace”, organizzato dall’Associazione Summit e dalla Fondazione
Magna Carta, moderato da Enrico Pianetta (presidente Associazione Parlamentare
Amicizia Italia-Israele), nella splendida (e per l’occasione: blindatissima)
Sala delle Colonne della Camera.

Motivi di preoccupazione, dopo l’exploit di Mahmoud Abbas
(Abu Mazen) all’Onu, ce ne sono molti: Hamas ed Hezbollah sono più attivi che
mai, fra Turchia e Israele non scorre buon sangue ed è l’Egitto che desta i
timori peggiori. “E’ un dato di fatto” – constata Frattini – “la fotografia
fatta dal nuovo segretario americano alla Difesa, Leon Panetta, è nitida:
Israele appare oggi, anche diplomaticamente, più isolato”.

E, se Netanyahu non ride, Abu Mazen piange, come fa notare
Giancarlo Loquenzi, direttore de l’Occidentale: “Chi è isolato è proprio Abbas,
non Netanyahu: Hamas è contro la soluzione del riconoscimento della Palestina
all’Onu, l’Egitto ha il terrore che l’innesco di questa procedura possa creare
ulteriore instabilità, lo stesso premier palestinese Fayyad si è detto più
volte scettico sulla soluzione di Abbas”.

Il presidente dell’Anp viene definito da Frattini come “il
migliore interlocutore possibile per Israele”, “L’Italia riconosce i diritti
dei palestinesi” – dice il titolare della Farnesina – “ritiene che la Palestina
debba diventare una realtà, sono personalmente convinto che il presidente Abbas
voglia sinceramente la pace, così come la vuole Netanyahu.

Sono certo che Abbas sia il miglior interlocutore possibile
per Israele. E spero che Israele comprenda che la sua credibilità non debba
essere ridotta o offuscata”. “Abbas il miglior interlocutore possibile?” – si
chiede Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana – “Ha avuto
anni di opportunità per preparare ed educare il suo popolo alla pace.

Ma nessun libro di testo palestinese ammette l’esistenza di
uno Stato di Israele. Lo Stato palestinese arriva fino a Haifa e Tel Aviv”. Il
problema, come sottolinea Barry Rubin, Direttore del Global Research in
International Affairs Center, è che lo Stato ebraico ha validi motivi storici
per essere scettico sul suo interlocutore.

Nel 1993 Israele ha accettato, con gli accordi di Oslo, di
fare un primo esperimento. In questi termini: se è vero che i palestinesi
vogliono uno loro Stato e desiderano la pace, cosa succede se offriamo loro
quello che chiedono? L’esperimento è finito nell’anno 2000”, quando Camp David
è fallita ed è scoppiata la II Intifadah.

“Un altro grande motivo di disappunto per Israele è la
reazione occidentale. Per tutti gli anni ’80, ’90, 2000, Israele ha sempre
dimostrato di voler perseguire la pace nella regione. Ha accettato compromessi,
fatto concessioni, corso rischi. Eppure lo scetticismo, se non l’aperta
ostilità dei governi occidentali nei suoi confronti sono sempre aumentati nel
corso degli anni.

Nel 2000 è stato evacuato il Libano del Sud, Israele è stato
colpito dai razzi di Hezbollah. Cosa ha ottenuto dall’Onu? Una missione di
peacekeeping che avrebbe dovuto impedire il riarmo di Hezbollah, ma non lo ha
fatto. Israele si è ritirato unilateralmente da Gaza nel 2005, come gesto di
pace.

E cosa ha ottenuto? Hamas al potere, lanci di razzi contro
il Negev, il rapimento di Shalit. E la comunità internazionale cosa fa?
Condanna Israele per la sua risposta militare del 2008-2009. Dall’altra parte i
palestinesi vengono incoraggiati dai governi occidentali a non rispettare i
patti e ad essere intransigente: se rifiutano di negoziare e di assumersi i
loro rischi, vengono loro offerte sempre nuove conferenze internazionali.

La leadership palestinese sa che, non facendo alcuna
concessione, ottiene popolarità all’interno e rispetto all’estero”. Ed è
quantomeno plumbeo lo scenario futuro dipinto da Barry Rubin,: “Ammettiamo che
lo Stato palestinese venga riconosciuto. La prima dichiarazione di Abbas
riguarderà il ‘diritto al rientro’ dei rifugiati, non in Palestina, ma in
Israele.

I terroristi continuerebbero ad attraversare i confini per
commettere attentati. L’esercito israeliano dovrebbe rispondere. Il governo
verrebbe condannato per aver commesso un’aggressione internazionale. E cosa
succede, se Hamas dovesse vincere le elezioni e dichiararsi del tutto estraneo
agli accordi con Israele? Francamente per lo Stato ebraico non ci sono le
condizioni, né è il momento giusto per correre dei rischi in cambio di…
niente”.

Una prova tangibile delle intenzioni di Abbas è il suo
stesso discorso all’Onu, la cui gravità è stata troppo sottovalutata, come fa
notare Fiamma Nirenstein, giornalista e deputata Pdl in prima linea nella
battaglia in corso all’Onu: “Abu Mazen ha escluso la trattativa, ha escluso
quel corpo estraneo, ebraico, dalla Ummah islamica.

Un nemico con cui non si può trattare realmente: lo stesso
Corano suggerisce di prendere tempo, fare tregue, ma mai giungere a una pace.
Abu Mazen non ha solo cancellato il ’67, ha cancellato anche il Trattato di S.
Remo del 1920, quando furono assegnati i mandati sul Medio Oriente, quando
l’Impero Ottomano, sconfitto, fu diviso in nuovi Stati”.

Alle spalle di Hamas, poi ci sono i Fratelli Musulmani in
Egitto, che, come ricorda Mario Sechi, direttore de Il Tempo, sono “a un passo
dal realizzare il loro sogno teocratico”: “Fra i cospiratori che hanno ucciso
Sadat c’era Ayman Al Zawahiri, destinato a diventare il numero due di Al Qaeda.

Sadat fu uno dei giudici che mandò a morte Sayyid Qutb,
ideologo dei Fratelli Musulmani. Prima di Sadat, Nasser aveva le armi, Qutb
aveva le moschee. Dopo Sadat, Mubarak controlla le armi, i Fratelli Musulmani
continuano ad avere le moschee. Questi ultimi si sono dimostrati più resistenti
e pazienti: Mubarak è caduto con la rivoluzione di piazza Tahrir, i Fratelli
Musulmani controllano ancora le moschee.

Dopo Mubarak… le preoccupazioni di Barry Rubin sono
estremamente concrete”. Che fare? Tornare al negoziato è l’unica soluzione. “In
questi contesti” – commenta Frattini – “avendo l’Italia ottimi rapporti di
amicizia con tutti gli attori regionali, abbiamo il compito di dare il nostro
contributo, per cercare di sanare fratture, difficoltà, incomprensioni”.

L’Italia può trattare serenamente con il governo Netanyahu.
E lo può fare, come ricorda Riccardo Pacifici anche perché: “I vari ministri
degli Esteri dei governi Berlusconi, da Martino, Frattini, Fini lo stesso
Berlusconi e poi ancora Frattini, hanno dimostrato una continuità nell’alleanza
con Israele che il mondo ebraico non aveva mai avuto modo di vedere”.

Un risultato importante, in queste settimane, lo abbiamo
ottenuto anche in Occidente: ricucire le divergenze in Europa. “La
dichiarazione congiunta del ‘Quartetto’ (Onu, Ue, Usa, Russia, ndr) va nella
direzione che ci ripromettevamo” – dice Fiamma Niresnstein – “Ripropone, senza
se e senza ma, la trattativa bilaterale.

Unica concessione è stata quella di porre delle scadenze al
negoziato. Ogni tanto bisogna pur dirlo che l’Italia ha fatto la sua parte”.

L’Opinione 5 ottobre 2011

 

One Response to Tornare al processo di pace dopo lo show all’Onu di Abu Mazen

  1. C’ero anche io alla conferenza…come amico, collaboratore e sodale di Fiamma… permettimi di postare il mio editoriale…

    Ascoltare dalla voce dei principali protagonisti l’evolversi della storia e le sue ragioni è certamente qualcosa di importante. Immaginate coloro che hanno potuto ascoltare la voce di Giulio Cesare che diceva “alea iacta est”, o le parole di Napoleone quando venne incoronato, o Maria Antonietta quando disse di dare le brioches al popolo che non aveva pane.
    Due settimane fa è stato scritto un pezzo di storia, quando Mahmoud Abbas si è presentato davanti all’Assemblea Permanente delle Nazioni Unite ed ha chiesto il formale riconoscimento dello Stato della Palestina, secondo i confini del 1967, precedenti alla guerra dei Sei Giorni.
    Un pezzo di storia contemporanea, quella che studieranno i nostri nipoti fra cinquant’anni…e che noi oggi stiamo seguendo come cronaca di ogni giorno, giornalisti e non storici.
    Probabilmente, se il nostro compito non sarà ben adempiuto, i nostri nipoti conosceranno solo un aspetto della storia. Ossia che la Palestina voleva l’indipendenza ma Israele, Unione Europea e Stati Uniti gliel’hanno negata. Ecco perché mi sono recato a Roma, lunedì scorso, ad ascoltare dalla viva voce dei protagonisti, ossia dal Ministro degli Esteri italiano, l’on. Franco Frattini, quello che è successo alle Nazioni Unite prima, durante e dopo questo evento che porta la data del 23 settembre 2011.
    Non siamo stati i soli, oltre duecento persone hanno partecipato alla conferenza, organizzata dall’Associazione SUMMIT e dalla Fondazione Magna Charta presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini a Roma il 3 ottobre, le liste di prenotazione erano strapiene e molti di noi sono stati costretti a fare anticamera. I Vigili del Fuoco sono intervenuti per evitare che la sala diventasse pericolosamente strapiena, cosa che, per motivi di sicurezza, era inaccettabile.
    E’ stato però possibile seguire la conferenza da un televisore da 40 pollici posto nella sala di attesa, ed è stato interessantissimo.
    Il ministro Frattini, capo della diplomazia italiana, ci ha spiegato con grande chiarezza quanto è stato fondamentale l’apporto italiano affinché si creasse un fronte comune europeo che si unisse agli Stati Uniti d’America nella difesa delle ragioni israeliane. Già quattordici anni fa ebbi modo di esprimere il mio sostegno al ministro Frattini con un articolo sulla necessità che l’Unione Europea parlasse con una voce unica nel consesso delle Nazioni Unite. Chiedevamo che l’Unione Europea avesse un suo seggio come Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza, con diritto di veto. Lungo sarà quel percorso, ma finalmente oggi ci rendiamo conto che l’Europa, nonostante i suoi 27 Membri, assume sempre più spesso una posizione comune nei grandi problemi internazionali, assumendo sempre maggiore autorevolezza davanti a grandi potenze come gli Stati Uniti, il Giappone e la Russia, che vorrebbe addirittura creare un’Unione Euroasiatica.
    Il ministro ci ha spiegato che l’impegno precipuo dell’Italia è stato quello di mantenere un fronte comune affinché la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese venisse calmierata in modo da evitare situazioni di conflitto anche per il popolo palestinese stesso. Si è data la possibilità a Mahmoud Abbas di presentare la sua richiesta ma si è sottoscritto un impegno affinché, entro il 2012, si sottoscriva un accordo definitivo sui confini, sullo status dei profughi palestinesi e sullo status di Gerusalemme.
    L’on. Nirenstein ha messo in evidenza anche una questione particolare, che solo gli storici possono prendere in considerazione, ossia che la richiesta unilaterale dell’ANP ha praticamente riportato il discorso a prima del quasi dimenticato Trattato di Sanremo sottoscritto negli anni Venti, con cui si stabiliva la divisione dei territori del Protettorato Britannico in Medio Oriente creato dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale. In tale suddivisione la maggior parte del popolo palestinese venne destinato alla neonata Giordania, unico alleato ancora degno di fiducia di Israele. Ecco, ci si è chiesti come mai nessuno abbia pensato di far rientrare nella futura Palestina parte del territorio giordano, mentre si è pertinacemente impegnati nel sottrarre territori ad Israele.
    Il ministro Frattini ha voluto precisare che il suo impegno in favore di Israele non è, ovviamente, dettato dalla volontà di farsi amici gli ebrei, ma perché per lui è un dovere assoluto.
    Come dovrebbe essere dovere assoluto per tutti coloro che hanno a cuore l’unica potenza libera e democratica circondata da Paesi islamici, l’unico Stato che viene continuamente minacciato di completa sparizione da un altro presidente di uno Stato che possiede la bomba atomica.
    Ettore Lomaglio Silvestri
    5 ottobre 2011

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