Testata:Informazione Corretta – Il Giornale – Il Foglio – Libero Autore: Zvi Mazel – Fiamma Nirenstein – Giulio Meotti – Daniele Raineri – Maria Giovanna Maglie.

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 15/09/2012, a pag. 1-3, l’articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo ” Quanto autolesionismo nelle scuse dell’America. Così vince solo la jihad “. Dal FOGLIO, a pag. 4, l’articolo di Giulio Meotti dal titolo ” Oltre all’ambasciatore, gli islamisti vogliono uccidere la libertà d’espressione “, in prima pagina, l’articolo di Daniele Raineri dal titolo ” Dov’è l’intelligence? “. Da LIBERO, a pag. 5, l’articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo ” L’Occidente che si fustiga  “. Ecco i pezzi, preceduti dall’analisi di Zvi Mazel dal titolo ” Cairo – Bengasi: cronaca di un dramma annunciato “:

INFORMAZIONE CORRETTA – Zvi Mazel : ” Cairo – Bengasi: cronaca di un dramma annunciato ” (Traduzione di Laura Camis de Fonseca)

Zvi Mazel

L’11 settembre, mentre l’America si raccoglieva nel ricordo delle tremila vittime degli attentati di 11 anni fa,  folle irose si raccoglievano davanti all’ambasciata americana al Cairo e al consolato di Bengasi, in Libia.  Nel 2001 il presidente George W. Bush dichiarò guerra al terrorismo islamico. Oggi la situazione è più complessa.  Certamente la lotta continua anche col presidente Obama.  Osama Bin Laden è stato eliminato e i droni americani bersagliano dal cielo i capi dei terroristi in Afghanistan, in Pakistan e in Yemen.  Obama cerca di conquistare i cuori degli Arabi e dei Musulmani.  Basta ascoltare i suoi discorsi ad Ankara e al Cairo.  Facendo spallucce alla vera storia degli Stati Uniti, Obama evoca il contributo dell’Islam allo sviluppo e al progresso dell’America. Peggio ancora, rifiuta di parlare di terrorismo islamico e parla di ‘criminali’ senza nome.  I manuali per l’esercito americano e per altre agenzie, la CIA ad esempio,  non parlano più di tale terrorismo.  Nel frattempo i terroristi e le loro organizzazioni proclamano ogni giorno di battersi in nome dell’Islam e per l’Islam, e di aver come obbiettivo la distruzione del loro maggiore nemico – quella democrazia di cui gli Stati Uniti sono il simbolo.  E’ chiaramente difficile combattere un avversario fanatico e determinato come  il terrorismo islamico rifiutandosi di  identificarne sia la natura sia gli obbiettivi.  Gli Americani si battono  dunque contro nemici ‘anonimi’ nei paesi arabi o musulmani,  facendo del loro meglio per riconciliarsi con l’ideologia che in quei paesi ha dato origine al terrorismo  assassino.  Il dramma dell’11 settembre è in larga misura il frutto di tale ambiguità.  Il presidente Obama ha voluto credere di premunirsi contro il terrorismo attraverso il dialogo con i Fratelli Musulmani,  il sostegno dato per rovesciare il vecchio alleato Mubarak e  il contributo NATO al successo della ribellione contro Gheddafi.  Non ha voluto vedere che l’Islam si oppone ai valori democratici – pluralismo, libertà d’espressione, pari diritti per le donne, libertà di religione –  di cui l’America è simbolo.  Perciò non ha pensato fosse necessario rafforzare la sicurezza delle rappresentanze diplomatiche americane nel mondo, in particolar modo in Medio Oriente,  l’11 settembre.  Eppure è ben noto che ogni sinistro anniversario è l’occasione per nuovi attentati.  Israele lo sa e prende sempre misure straordinarie in occasione di date fatidiche. Eppure si sapeva che sarebbe successo qualche cosa. Al Cairo il quotidiano al Fajr aveva pubblicato il 10 un comunicato di varie organizzazioni  jihadiste –  Jihad Islamico, Gamaal Islamiya e altre –  che annunciava di voler incendiare l’ambasciata americana e prendere in ostaggio i suoi diplomatici  se gli USA non avessero rimesso in libertà  i militanti detenuti a Guantanamo e lo sceicco cieco Abdel Rahman, loro capo spirituale,  colui che  diede la sua benedizione sia all’assassinio di Sadat sia al primo attentato al World Center nel 1991, e che  ora è  all’ergastolo.  Se i giornali avevano  questa informazione, è ragionevole pensare che l’avessero anche i servizi segreti egiziani e americani!  Ma c’è  ancora altro.  La mattina dell’11 è stato diffuso per le vie  e sui giornali  l’annuncio di una grande manifestazione davanti all’ambasciata a partire dalle ore 17,  per protestare contro un film giudicato blasfemo nei confronti del profeta Maometto.  Film di cui nessuno aveva mai sentito parlare – prodotto  negli USA da un Egiziano copto.   Ma la sicurezza dell’ambasciata non venne rinforzata.  C’è da chiedersi perchè il presidente Obama non ha preso il telefono  per chiedere a Morsy  di rendersi garante della sicurezza della sede diplomatica, e perchè  il presidente egiziano non ci ha pensato in proprio.  Quando la manifestazione è degenerata, le forze di sicurezza egiziane hanno reagito fiaccamente,  lasciando che i manifestanti si arrampicassero sui muri e  togliessero la bandiera  americana per issare il drappo nero dei Salafiti. La bandiera americana è stata calpestata e bruciata, come  quella israeliana durante l’assalto all’ambasciata di un anno fa.  E’ noto che il giovane egiziano che allora  strappò la bandiera  è diventato un eroe nazionale elogiato dai giornali  e  premiato dal  governatore di Giza…  Sfortunatamente  in Libia  è andata ancora peggio.  Il consolato è stato ridotto in cenere  e quattro Americani sono stati assassinati,  incluso l’Ambasciatore che vi si trovava in visita, un amico sincero del popolo libico.  Ora si sa che l’attacco era stato preparato da tempo e probabilmente non aveva nulla a che fare con il film.  Gli assalitori avevano armi pesanti  e c’è da chiedersi come mai  le autorità locali ed i loro informatori – per non parlare dei servizi segreti americani – non avessero nè visto nè saputo niente.  Per altro il vice-ministro libico degli interni non si è trattenuto dal  rimproverare agli Americani – con una dose di mala fede – di non aver preso le misure necessarie per la protezione del consolato e di non aver previsto  un sistema di evacuazion in caso di necessità.  Venuta a conoscenza della manifestazione, la delegazione  americana al Cairo si  è accontentata di esprimere condanna per il film, come per altro ha fatto Hillary Clinton dopo l’attacco.   Il Segretario di Stato si è poi chiesta ad alta voce davanti ai giornalisti come i Libici avessero potuto assassinare l’Ambasciatore dopo  tutto quello che l’America aveva fatto per loro… mostrando  così di non aver capito nulla dell’Islam e dei suoi obbiettivi, così come il Presidente.  Poi abbiamo sentito  Obama condannare gli autori del film subito dopo aver condannato il quadruplo assassinio, e promettere  di collaborare con la Libia  per trovare i ‘criminali’.   Si ha  l’impressione che abbia quasi avuto più peso la condanna del film che la condanna dell’assalto.  E questo dà adito a due considerazioni.  Primo: non è  detto che sia stato il film il  motivo dell’attacco  dell’11 settembre al consolato.  Secondo:  la libertà di espressione è un valore fondamentale,  ancorato  nella costituzione americana;  perchè  dunque i dirigenti americani si  scomodano tanto a scusarsi con i terroristi,  come se riconoscessero che l’America è ‘colpevole’  per aver prodotto il film? E’ un triste risveglio per chi  credeva o voleva credere  che la ‘primavera araba’ avrebbe  visto i paesi arabi  incamminarsi  sulla via della democrazia.   E’ il contrario. I valori democratici e liberali sono ancora estranei alle tradizioni arabe e islamiche.  Il mondo arabo si  dirige sempre più verso dittature religiose. I Fratelli Musulmani e i Salafiti lo trascinano in un abisso di estremismo e di instabilità. Rimane da capire che reazione avrà l’occidente,  soprattutto che cosa farà l’America.  Il presidente Obama ha dichiarato giovedì 13 settembre che l’Egitto non è più amico dell’America.  Forse è un primo passo.

Il GIORNALE – Fiamma Nirenstein : ” Quanto autolesionismo nelle scuse dell’America. Così vince solo la jihad “

Fiamma Nirenstein

Le ambasciate americane bruciano in tutto il Medio Oriente e oltre. L’islam jihadista morde la mano che l’ha aiutato nelle rivo­luzioni. È ridicolo sposare la tesi che la rab­bia omicida di massa sia colpa di un ignorabile filmet­to su Maometto sul web. Non si tratta mai solo di vi­gnette, film,affermazioni:l’analisi di quanto sia cara la figura di Maometto all’islam potrebbe essere com­parata a quanto sia cara la figura di Gesù a un cristia­no. Ma solo dei cristiani pazzi si avventurerebbero, di fronte a eventuali offese, in omicidi e incendi. La tv salafita egiziana ha acceso il fuoco mostrando la mi­sera performance in internet dopo un anno che il film esisteva:un gesto di provocazione.E la folla ave­va armi anche pesanti quando si è avventata sull’am­basciata. Non proprio un gesto spontaneo, dunque. È autolesionistico che Hillary Clinton invece di tuonare, come compete a un ministro degli Esteri per la perdita del suo ambasciatore, si sia sbrigata a dichiarare «ripugnante» lo stupido filmetto, come se ciò comportasse conseguenze violente. È pesante che Obama, il difensore designato delle libertà, non abbia colto l’occasione per spiegare che da noi, in Occidente, la libertà di pensiero si estende a tutti i temi. Poteva fare l’esempio di quando la Corte Supre­ma americana, già nel 1940, assolse un certo Newton Cantwell e i suoi due figli, accusati per la diffusione di materiali anticattolici che avevano provocato reazioni violente (lori cor­da Seth Frantzman sul Jerusalem Post ). Tanti casi di liceità delle opinioni estreme si sono susseguiti nella no­stra storia. Certo non ci schiererem­mo mai con chi bruciava gli eretici per motivi di ordine pubblico. Ci si può scusare e poi ribadire con terri­bile grandezza che gli ambasciatori sono sacri, sacro è il diritto di opinio­ne, che guai a chi li tocca, e che nep­pure il­più idiota e ignoto degli esibi­zionisti da noi verrà tacitato. La veri­tà è che vogliamo, senza speranza, essere accettati dagli islamici. Accet­tiamo qualsiasi equivoco sperando che sorgerà per loro la stella della de­mocrazia, e tutto andrà bene. George Bush pensava che rimuo­ve­ndo Saddam Hussein l’Irak potes­se diventare un’occasione per sciiti e sunniti di sedersi insieme al ban­chetto della libertà, e ne ha ricavato biasimo mondiale, mentre i morti tribali, religiosi, etnici seguitano a contarsi a migliaia. Obama avrà la stessa sorte. Ha voluto essere l’ap­prendista stregone delle rivoluzioni arabe, come Carter fu quello della ri­voluzione khomeinista: la sua ac­quiescenza verso l’islam gli ha rega­lato un’immagine di debolezza in unmondoincuiessavieneconside­ratasino­nimodistupidaggineepro­messa di vittoria vicina per l’islami­smo. Kartoum, Tunisi, Gerusa­lemme, il Libano, oltre a Bengasi e al Cairo sono preda di manifestazioni di odio che sono già costate la vita a svariate persone. L’assassinio di Chris Stevens sarebbe dovuto  diven­tare l’occasione di un altolà decisi­vo. L’ambasciatore è una figura isti­tuzionalmente intoccabile, eppure Stevens era il meno tutelato, ma il più coraggioso fra i cinquantenni americani alti e biondi che la matti­na fanno jogging ( e lui lo faceva), si­curo che gli bastassero un paio di persone ai fianchi nel fiato afoso del MedioOriente. Ma come poteva Ste­vens ig­norare che la Libia è una cal­daia ribollente d’odio? È impossibi­le che non sapesse che nel novem­bre 2011, quando cadde il regime, le forze ribelli issarono la bandiera di Al Qaida sulla Corte di Giustizia di Bengasi. Molte bande,che si chiami­no Al Qaida o quant’altro, le forma­zioni jihadiste di ogni tipo chiedono quella giustizia, la sharia. La loro scontentezza odierna è legata al fat­to che di jihadismo, oltre che di pa­ne, i nuovi governi non ne hanno da­to abbastanza; la colpa è sempre de­gli Usa e di Israele, l’odio è sempre volto all’Occidente. Non c’è in que­sto niente di personale, dunque niente che possa essere sanato, ed è assurdo non legare concettualmen­te le nuove rivoluzioni all’ideologia che sembra dominarle, lo jihadi­smo. È la promessa dell’islam di pie­gare il mondo alla sottomissione. È onestamente ridicolo il tentativo specialistico di descrivere Al Qaida come un’organizzazione in decli­no. Non importa se Al Qaida è sban­data, divisa, impoverita. È come quando si dice che da Gaza non è sta­to Hamas a sparare i missili, e si sa che alla fine i piccoli gruppi non si muovono senza il suo permesso. Gli attacchi sono la grande voce dello jihadismo, in cui Al Qaida ha rino­mato spazio. La spontanea suddivi­sione in rami autonomi non ne fa in alcun modo un’organizzazione de­bole. Si è fatta un variegato partito combattente dalla Libia alla Siria al Sinai. Ma Obama non vuole riconosce­re che esista un pericolo jihadista, l’America ha preferito l’idea che si tratti di un evento minoritario frutto del fanatismo e colpa di un idiota che posta un filmino, e quindi che gli assassini abbiano qualche ragione. Così si creano nuove rivendicazio­ni, e nuove provocazioni: lo sceicco Yusuf Al Qaradawi, mentre il Papa parte per il Libano, gli chiede in un messaggio ironico e aggressivo le scuseperquelchedissenel2006sul­l’islam politico. Fomenta l’odio con­tro i cristiani e dice che la colpa è tut­ta dei cristiani stessi. Stile america­no. www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO – Giulio Meotti : ” Oltre all’ambasciatore, gli islamisti vogliono uccidere la libertà d’espressione “

Giulio Meotti

Le democrazie sono depositarie di un tesoro fragile e deperibile: la libertà d’espressione. Questa sembra incrinarsi, mentre un altro video dozzinale sull’islam fa il giro del mondo e miete vittime nel corpo diplomatico americano. Ieri su Repubblica Barbara Spinelli invitava a trovare un equilibrio fra libertà e responsabilità. Certamente esiste uno sciatto secolarismo, un gusto militante alla provocazione, che ferisce il sentimento del sacro nella comunità islamica, consegnando la rabbia contro la profanazione alla guida politica dei fondamentalisti. Ma Spinelli non centra il cuore del conflitto fra islamismo e “blasfemia”, come la chiamano i musulmani. E’ piuttosto il tentativo islamista di imporre le regole dei taglia-lingue anche in occidente. Ne è appena stata vittima Richard Millet, editor e autore cacciato da Gallimard per aver espresso idee diverse da quelle del conformismo multiculturale. Non a caso Elisabeth Lévy, direttrice della rivista Causeur, intellettuale non arruolabile nella pattuglia degli “xenofobi”, ieri non usava mezzi termini e parlava della “fatwa di Saint-Germain-des-Prés”. Il diritto di esprimere la propria opinione, anche in modo traumatizzante, di mettere in discussione i tabù, fossero pure maggioritari, le democrazie occidentali l’hanno pagato caro. L’autocensura preventiva, la ritirata strategica di fronte alla furia islamista, sarebbero una regressione epocale. L’omicida fondamentalista è prima di tutto un assassino ideologico. Spinelli scrive che “un Voltaire permissivo non è mai esistito (non è sua la frase ‘Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo’)”. A parte il fatto che l’apostolo della libertà di critica pronunciò davvero quella frase. Ma c’è di più. Voltaire, che si evoca a man bassa soltanto quando c’è di mezzo la chiesa cattolica, non rischiò la vita per mano di nemici che potevano scambiarsi informazioni su Internet per pianificarne la decapitazione sugli Champs-Elysées, come è successo a Theo van Gogh e poteva accadere a Robert Redeker, quello di “une fatwa au pays de Voltaire”. Due giorni fa a Bruxelles, di fronte alla classe dirigente europea, Mohammed Morsi, fratello musulmano e presidente egiziano, ha scandito: “Maometto non si tocca”. Parole grandiose, roboanti, una sfida politica e teologica all’Europa postmoderna. E infatti un intellettuale della gauche come Pascal Bruckner ha scritto che “l’islamofobia sta diventando un reato di opinione analogo a quello che si perpetrava un tempo, in Unione sovietica, contro i nemici del popolo”. L’invenzione di questo reato ideologico, che è una cosa ben diversa dall’attacco razzista ai musulmani in quanto persone, svolge molte funzioni: negare, per legittimarla meglio, la realtà di un’offensiva fondamentalista; indurire la mano di chi scrive; costringere gli occidentali alla difensiva; intimidire i “cattivi musulmani” interessati al cambiamento, e come dice Bruckner, “riabilitare l’offesa d’opinione per chiudere la bocca ai contraddittori”. Grazie a quest’offensiva, e al fatto che ormai soltanto qualche mosca bianca si avventura nella difesa della libertà di parola, da noi abbonda la paura. Quattro anni fa la Tate Gallery di Londra ritirò l’opera “God is great” di John Latham a causa delle minacce. L’opera di Latham mostrava Bibbia, Corano e Talmud tranciati di netto da una lastra di vetro. Il critico d’arte Richard Cork accusò l’establishment britannico di svendere la libertà d’espressione: “Quando si inizia a pensare così, il cielo è il solo limite”. Per questo non è nostro diritto disquisire sulla bellezza dei video che si realizzano di là e di qua dell’oceano, sugli articoli che si scrivono, sulle opere d’arte che si esibiscono, sulle vignette che si disegnano. In occidente abbiamo conquistato a caro prezzo la libertà di farlo. Non spetta agli antichi custodi del fuoco il permesso di concedere il diritto di pensiero o parola. Non sono belle le caricature sul Profeta. Non sono belle le fotografie dell’iraniana Sooreh Hera. Non è bello “Fitna” di Geert Wilders. Ma in gioco non ci sono l’eleganza o il bon ton, ma un’Europa sottomessa al verbo incendiario di chi non tollera dissenso e critica. Se l’11 settembre 2001 ha rappresentato l’avvio del jihad contro l’occidente, di cui l’attacco in Libia è l’ennesimo capitolo, il 12 settembre 2006 ha costituito il livello più alto di una insidiosa sottomissione degli ideali dell’occidente e di coloro che li proclamano, siano essi giornalisti, scrittori, vignettisti o pontefici. Quel giorno Papa Benedetto XVI tornò in Baviera, la terra dove è nato e ha iniziato a insegnare. All’Università di Ratisbona, Ratzinger tenne una lezione sulle radici della civiltà, citando una frase dell’imperatore di Bisanzio Manuele II Paleologo sull’islam. Il linciaggio a cui fu sottoposto il Papa nella umma e in occidente assunse una dimensione d’assedio sensazionale (sacerdoti furono anche martirizzati). Di quella campagna di criminalizzazione sono sentine anche l’omicidio Van Gogh, l’attacco al giornale Charlie Hebdo, la casa-bunker dei vignettisti danesi e i processi che si celebrano in occidente agli “islamofobi”. Non possiamo permetterci di fare concessioni a chi vorrebbe scambiare la cittadinanza con il giogo, la common law con la sharia, l’ironia con la paura, il diritto di parola con la fatwa e la rappresentazione con la sottomissione. Equivarrebbe alla fine dell’occidente così come lo abbiamo conosciuto.

LIBERO – Maria Giovanna Maglie : ” L’Occidente che si fustiga “

Maria Giovanne Maglie

Basta con questa storia del film offensivo, disgustoso: è doppiamente grave e stupido dare la colpa a una patacca di un fenomeno politico, perché nasconde la verità su quanto sta accadendo in Medio Oriente dietro una finta offesa a un credo religioso, e perché calpesta le libertà individuali e civili che l’Occidente si è conquistato a costi altissimi. Che Barack Obama continui a utilizzare il politically correct in ore che richiedono determinazione e coraggio, dimostra solo ulteriormente che alla Casa Bianca siede un dilettante, speriamo ancora per poco; che lo ripetano i governanti europei, le cui politiche miopi hanno armato quella folla e riempito le nostre città di predicatori d’odio e persecutori di donne, dimostra solo ulteriormente che siamo governati da pavidi mediocri. Ma qui non c’è un filmetto in ballo, come non c’erano vignette satiriche in ballo qualche anno fa, né il martirio di Theo Van Gogh riguardava solo lui, tantomeno la vita da recluso condannato a morte in vita riguarda solo Salman Rushdie. Qui c’è la nostra libertà in ballo, e mi ammazzero pure domani, io non intendo sacrificarla lisciando il pelo alla belva. Nessuna linea rossa Non ho visto il famigerato film su Maometto, che quasi sicuramente non esiste, ma se anche esistesse non me ne fregherebbe niente. È una truffa, una provocazione, uno scherzo di cattivo gusto, la vendetta di un cristiano copto, una provocazione del reverendo Terry Jones? Non mi interessa, perché qui è in ballo la libertà d’espressione, sono messi in discussione i miei diritti civili, e la sottile linea rossa che secondo il Fratello musulmano Morsi, presidente d’Egitto, nessuno deve osare oltrepassare quando si tratta del profeta Maometto, io la voglio ignorare. Circola su Internet un pallido e innocuo spezzone amatoriale, neanche due minuti, dal quale forse si deduce che a Maometto piace una donna non abbastanza velata, che scherza con un asinello, poco altro, pare che in altri spezzoni si insinui che il Profeta dell’islam era donnaiolo, ma gli piacevano giovanissime. Mi pare che la moglie prediletta di Maometto sia nella tradizione descritta come impalmata a sette anni, deflorata a nove. Giudicate voi quale aggettivo utilizzare, naturalmente con il senso comune di oggi, ma la tendenza a impalmare la pupa persiste in numerose aree dell’islam, copiando il modello intoccabile. Ma anche se fossero tutte bugie, voglio essere libera di ascoltarle o di non ascoltarle, come ascolto e vedo storie di contestazione feroce del cristianesimo alle quali diamo anche l’etichetta di opera d’arte, da «Jesus Christ superstar » in avanti. Non è una libertà barattabile la libertà d’espressione, nemmeno se fosse vero, ed è una bugia volgare, l’appello al reciproco rispetto. Ieri l’egiziano Morsi lo invocava e Napolitano annuiva. Lo chiedano ai cristiani perseguitati in Egitto, in Sudan, in Nigeria, nei territori palestinesi, lo chiedano ai musulmani convertiti al cristianesimo che vivono come morti viventi, nelle catacombe! La violenza preordinata e organizzata contro obiettivi americani e occidentali nell’anniversario dell’11 Settembre ha una causa e un nome solo, l’aspirazione islamica alla supremazia, il progetto di dominio, il sogno del nuovo califfato; non riguarda una frangia di terroristi, è ampiamente maggioritario in Medio Oriente, insieme a odio e disprezzo per l’Occidente. Guardiamo l’Egitto, ricordiamoci le chiacchiere su Piazza Tahrir, e poi il risultato delle elezioni, stravinte dai Fratelli Musulmani in nome della sharia, non dai moderati e dai laici di cui si riempiono la bocca le cancellerie occidentali, con in più una bella dose di voti ai salafiti. La sharia non è la reazione sdegnata a un film blasfemo e offensivo, è la condanna come blasfema di qualunque critica all’islam e al suo profeta, punibile con la morte. La sharia è legge divina e non umana, proibisce la libertà dell’individuo, condanna a morte gli omosessuali, lapida le donne adultere, frusta chi beva alcolici, bolla una testimonianza femminile perché degna la metà di quella di un uomo. Sono standard inaccettabili, e chi li accetta, chi stoltamente in queste ore condanna le offese ai sentimenti religiosi dei musulmani, come hanno fatto più o meno tutti, a partire da Casa Bianca, Dipartimento di Stato, concede loro una patente di liceità pericolosissima, sputa sui morti, profana il cadavere già devastato di Chris Stevens, il povero ambasciatore sballottato per ore come un trofeo nella notte di Bengasi. Non credo che gli americani siano disposti a rinunciare a quel freedom of speech che è il fondamento della Costituzione del mondo nuovo, che è stato preservato a ogni costo finora. A noi europei qualcuno ci illumini. Gli errori di Barack Barack Obama ha liquidato in due giorni la teoria della «lunga guerra» del suo predecessore. Va detto che è stata una decisione folle, ma accolta con entusiasmo dal suo popolo stanco di guerra e dai riluttanti partner europei, governanti mediamente mediocri. Le conseguenze sono state l’abbandono dell’Iraq all’in – fluenza iraniana; il fallimento in Afghanistan, senza via d’uscita; l’appoggio alla cosiddetta primavera araba che, nata su richieste legittime, la fame in Egitto, la libertà in Tunisia, è stata riempita e occupata dalle organizzazioni fondamentaliste; il contagio nei Paesi arabi i cui governanti tentavano una strada di riforme moderate, il Marocco in testa; la sostituzione di un dittatore infame ma ormai totalmente addomesticato, come Gheddafi, con il caos e la guerra civile. Osama bin Laden è stato ucciso al culmine di un’operazione durata anni, ma al Qaeda è un network, è locale, è europeo. È finita come doveva, non per il trailer di un film che non c’è. Che fare? Non c’è che l’arma economica, se si recupera un po’ di cervello. Mohammed Morsi vuole dieci miliardi di dollari per risanare le casse vuote del suo Paese. Ha bisogno del Fondo Monetario e dell’Euro – pa. Non ci venga a raccontare che non è in grado di tenere a bada le folle che escono dalle scuole coraniche. Non si provi a dire, né in inglese né in arabo, che c’è una linea rossa per noi stabilita da quelli come lui.

Il FOGLIO – Daniele Raineri : ” Dov’è l’intelligence? “

Daniele Raineri

Roma. L’Amministrazione Obama e i servizi segreti si sono fatti cogliere di sorpresa dalla violenza nel mondo islamico, com’era successo l’anno scorso con le rivolte arabe. L’intelligence non ha dato l’allarme prima dell’assedio all’ambasciata americana al Cairo e dell’attacco al consolato di Bengasi dove l’ambasciatore Christopher Stevens è morto assieme a un diplomatico e due uomini della sicurezza. Eppure, secondo la ricostruzione di Reuters, il momento in cui la valanga era ancora una palla di neve leggera è identificabile con esattezza: la rete egiziana al Nas ha trasmesso uno spezzone del film caricaturale sul profeta Maometto nel pomeriggio di sabato scorso. Al Nas è legata ai salafiti ed è avversaria dei Fratelli musulmani. Da lì la questione, che era rimasta congelata per mesi, è esplosa. Quattro giorni dopo è arrivata la prima protesta al Cairo, fatta coincidere con l’anniversario dell’11 settembre. Un ufficiale americano e anonimo si difende con Reuters: “Non possiamo lanciare un allarme per tutto, altrimenti diventa un inutile al lupo al lupo”. Il quotidiano britannico Independent ha una versione più grave: il dipartimento di stato avrebbe avuto informazioni credibili con 48 ore di anticipo sul rischio che le sedi americane potessero essere attaccate, ma i diplomatici sul campo non sono stati avvertiti e non è stato dato l’ordine di “lockdown”, che vieta qualsiasi spostamento e avrebbe salvato la vita a Stevens. L’ambasciatore in Libia era appena tornato da un viaggio in Germania, Austria e Svezia e il suo staff ha deciso che il viaggio a Bengasi poteva essere compiuto in tranquillità. Al consolato era stato fatto un “tagliando” in vista di possibili violenze legate all’anniversario dell’11 settembre: quella sera, tuttavia, il perimetro difensivo è stato violato in 15 minuti. Le 30 guardie libiche sono scappate, anzi, hanno indicato agli aggressori la posizione del rifugio segreto dove avevano cercato scampo almeno 25 americani, che poi è stato bombardato da un mortaio con precisione studiata. Da Tripoli sono arrivati solo otto soldati in elicottero: il fatto che ora arrivino 200 marine è segno che l’intelligence americana in Libia aveva completamente sbagliato i suoi calcoli.

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