Testata:Il Foglio – Corriere della Sera Autore: Giulio Meotti – Cecilia Zecchinelli Titolo: «La rottura fra America e Israele – Tensione Casa Bianca-Israele sull’ultimatum a Teheran». //*IC*

Tensioni Usa/Israele per quanto riguarda la linea da adottare contro il nucleare iraniano, non è una novità. L’argomento è trattato su quasi tutti i quotidiani italiani di questa mattina, riportiamo dal sito internet del FOGLIO l’articolo di Giulio Meotti dal titolo “La rottura fra America e Israele”. Dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/09/2012, a pag. 18, l’articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo “Tensione Casa Bianca-Israele sull’ultimatum a Teheran”.

In basso, Ahmadinejad dice a Obama : ” Non ti dispiace, vero, se continuo a lavorare mentre mi parli ? “

 

Ecco i pezzi:

Il FOGLIO – Giulio Meotti : “La rottura fra America e Israele “

Giulio Meotti   Bibi Netanyahu con Barack Obama

‘La minaccia è qui’. Obama indica i Territori contesi, Netanyahu l’Iran.

Il primo ministro israeliano Netanyahu ha lanciato un attacco politico senza precedenti agli Stati Uniti, dopo che nei giorni scorsi Hillary Clinton si era rifiutata di stabilire una “linea rossa” contro il nucleare iraniano. Ha detto Netanyahu: “Dicono a Israele, ‘aspetta, c’è tempo’. E io dico, ‘tempo per cosa? Fino a quando aspettiamo?’. Chi si rifiuta di stabilire linee rosse all’Iran non ha il diritto morale di porre una luce rossa a Israele”. Sull’Iran siamo di fronte alla più drammatica crisi di fiducia fra Gerusalemme e Washington. Chi conosce la storia dei rapporti fra Stati Uniti e Israele sa quanto rancore possa scorrere fra i due alleati. Difficile dimenticare la suola delle scarpe con cui Obama si fece fotografare mentre si trovava al telefono con Netanyahu. E il fuorionda allo scorso G20 di Cannes è stato emblematico. Il presidente francese Sarkozy: “Netanyahu? Non posso più vederlo”. Replica il presidente americano Barack Obama: “Tu sei stufo, io devo trattare con lui tutti i giorni”. Netanyahu tempo fa ebbe a definire Rahm Emanuel e David Axelrod, i due principali consiglieri di Obama di origine ebraica, “ebrei che odiano se stessi”.
Durante la prima Guerra del Golfo, quando era vice capo di stato maggiore, Ehud Barak chiamò il generale Norman Schwarzkopf, allora comandante delle forze americane in Iraq, “Kleinkopf”. Significa testa piccola. Il generale Rehavam Zeevi ebbe a definire Martyn Indyk, allora ambasciatore americano in Israele, “Jew-Boy”. Alla replica di Indyk secondo cui Zeevi era un “imbarazzo” per il suo paese, Zeevi replicò: “Lui dice che io sono un imbarazzo, dopo che ho protetto il mio paese sul campo per cinquant’anni. Forse è lui l’imbarazzo, che lavora contro il suo stesso popolo per i Gentili. Io sono un generale, lui è un fiacco ambasciatore”. Per capire quanto siano distanti Washington e Gerusalemme bisogna anche ricordare che se Indyk oggi siede comodamente nel board di un think tank di Washington, Zeevi è al cimitero degli eroi sul Monte Herzl a Gerusalemme, ucciso nella propria stanza d’albergo da terroristi palestinesi.

CORRIERE della SERA – Cecilia Zecchinelli : “Tensione Casa Bianca-Israele sull’ultimatum a Teheran”

Salam Fayyad con Abu Mazen, proteste nei Territori palestinesi.

GERUSALEMME — Il premier dello Stato ebraico Benjamin Netanyahu «non sarà ricevuto dal presidente americano Barack Obama nella sua imminente visita a New York per l’assemblea generale dell’Onu», ha rivelato ieri sera il quotidiano Jerusalem Post. Prime smentite dalla Casa Bianca, poi la sostanziale conferma: «Neghiamo che il presidente Obama abbia rifiutato la richiesta di un incontro. Questo non avverrà per problemi di agenda. Il presidente Obama non si troverà in città quando sarà presente il premier israeliano, che sarà ricevuto dal segretario di Stato Hillary Clinton». Punto e a capo. Che i rapporti tra i due grandi alleati fossero ormai tesi, a dir poco, è cosa nota. E il motivo è la volontà di Israele di colpire l’Iran o almeno fissare a livello internazionale, America in testa, limiti invalicabili per Teheran, oltre i quali la risposta militare sarebbe inevitabile. Ma il «no» dell’amministrazione Obama (e non solo) negli ultimi giorni aveva esacerbato il contrasto. Solo ieri mattina, Netanyahu aveva tuonato che «chi non vuole fissare linee rosse per l’Iran non ha il diritto morale di imporne a Israele». Nei giorni precedenti la stessa Clinton aveva ribadito che la via con Teheran restava la diplomazia. Le reazioni di Israele erano state, già allora, durissime, anche se dal governo erano continuate a trapelare voci di «colloqui in corso con Washington per fissare insieme un ultimatum» agli iraniani. Ieri sera però è apparso improbabile che una simile cooperazione esista, o sia mai esistita. Nella notte il ministro della Difesa Ehud Barak ha confermato la spaccatura: «Solo Israele ha il diritto di decidere in merito della sua sicurezza». La crisi diplomatica tra Stati Uniti e Israele non è il solo problema che Netanyahu sta affrontando in questi giorni. Una crescente preoccupazione riguarda la possibilità che nel Paese stia per esplodere una «terza intifada». Da una settimana migliaia di manifestanti palestinesi sono scesi in piazza in tutta la Cisgiordania, da Ramallah a Betlemme, da Hebron a Nablus. Ovunque scontri e feriti, assalti a edifici pubblici, scioperi e blocchi stradali, scuole e negozi chiusi. Questa volta, almeno per ora, oggetto della furia non è Israele ma l’Autorità nazionale palestinese, soprattutto il premier Salam Fayyad. L’accusa è di essere responsabile della terribile crisi economica, o comunque incapace ad affrontarla. In una situazione già fortemente precaria e in cui Israele controlla di fatto economia e commercio dei Territori, il recente aumento della benzina, il taglio degli stipendi dei 153 mila dipendenti dell’Anp, l’impennata dei prezzi (un caffè a Ramallah può costare 4 euro) stanno causando la più grave sfida interna mai rivolta al governo palestinese dalla sua nascita nel 1994. Ieri Fayyad ha tentato di placare il dissenso: l’aumento della benzina e della tasse sarà cancellato, gli stipendi dei dirigenti politici tagliati e quelli dei dipendenti pagati. «È il massimo che possiamo fare», ha detto il premier economista, appoggiato dall’Occidente e ora accusato, tra l’altro, di essere «collaboratore degli Usa». Il presidente Abu Mazen all’inizio delle proteste aveva parlato di «primavera araba» arrivata anche in Palestina. Per molti era stata una stoccata al premier, con cui i rapporti sono deteriorati. Poi, con l’ampliarsi delle proteste, Abu Mazen aveva fatto marcia indietro, consapevole che l’intera Anp è minacciata.

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