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 Autore: Fiamma Nirenstein – Maria Giovanna Maglie – Giulio Meotti – Elena Loewenthal – Vittorio Dan Segre – Bernardo Valli.

Riportiamo da LIBERO di oggi, 16/11/2012, a pag. 1-19, l’articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo ” Israele è sotto attacco: fa benissimo a sparare “. Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l’articolo di Giulio Meotti dal titolo ” Filo diretto con l’Iran “, in prima pagina, l’Andrea’s Version di Andrea Marcenaro. Dalla STAMPA, a pag. 13, l’articolo di Elena Loewenthal dal titolo ” La banalità del terrore. Vivere sotto le bombe che cadono ogni giorno “. Dal GIORNALE, a pag. 13, l’articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo ” Un confronto militare che deve durare poco per l’interesse di molti” . Da REPUBBLICA, a pag. 4, l’articolo di Bernardo Valli dal titolo ” L’Egitto in aiuto di Hamas sul conflitto Israele-Gaza”. Ecco i pezzi, preceduti dal comunicato di Fiamma Nirenstein dal titolo ” Gli israeliani costretti a una guerra di sopravvivenza “:

Foto in alto: un bambino israeliano di pochi mesi ferito a Kiryat Malachi, sopravvissuto agli attacchi di Hamas.

Le vittime israeliane di Kiryat Malachi.

Kiryat Malachi, una donna cerca riparo dai razzi di Hamas.

La palazzina distrutta dal razzo di Hamas a Kiryat Malachi.

Fiamma Nirenstein – ” Gli israeliani costretti a una guerra di sopravvivenza”

Fiamma Nirenstein, razzi da Gaza

“Stamani ci raggiunge, appena tornati da Israele con una delegazione dell’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia – Israele, la notizia dell’uccisione volontaria di tre civili innocenti nella loro casa di Kiryat Malachi, causata del lancio di 250 missili in 24 ore indiscriminatamente su una popolazione di un milione e mezzo di civili del Sud. Dico “volontaria” perché è evidente che il bombardamento è indirizzato alla popolazione civile, come sempre peraltro da quando nell’agosto 2005 Israele ha sgomberato Gaza, oggi interamente nelle mani dei palestinesi di Hamas. Da allora dalla Striscia, con qualche intervallo, piove su Israele un’insopportabile quantità di missili in parte di lunga gittata ( Fajr) di probabile fabbricazione iraniana, in parte Grad, katiushe e razzi vari. L’Associazione ha visitato la popolazione e portato la sua solidarietà in un kibbutz, Kfar Asa, duramente colpito nei giorni scorsi. Abbiamo visto i bambini rinchiusi da giorni nelle stanze blindate, le case bombardate, i negozi chiusi, la gente pronta a raggiungere in quindici secondi i rifugi costruiti in ogni casa. Abbiamo ascoltato episodi di morti e di feriti. La mia impressione è che gli israeliani abbiano vissuto e vivano nelle ultime settimane una condizione inaccettabile per qualunque Paese, incluso il nostro, in cui si colpisce gratuitamente e con studiata crudeltà la popolazione civile. Penso anche che l’esercito israeliano abbia cercato di contenere al massimo il numero dei palestinesi uccisi nell’ambito dell’operazione in corso, Israele non ha mai cercato altro che di fermare il lancio di missili colpendo i responsabili e i nidi di armi, e che l’esposizione volontaria che Hamas fa dei propri civili rende molto difficile un’operazione mirata con perfezione, della qual cosa certamente ci dobbiamo dispiacere speeando che anche Gaza un giorno pensi al proprio sviluppo e alla propria gente piuttosto che alla distruzione di Israele. Dall’altra parte, è chiaro che l’enorme investimento israeliano nella vita degli abitanti con un sistema di protezione capillare, un rifugio per ogni casa e il continuo investimento per proteggere le scuole e i luoghi di lavoro, rendono più difficile colpire i civili.Per questo i numero di morti ècontenuto nonostante i lanci ormai continui e senza tregua. Speriamo che quanto prima il fuoco di guerra si spenga, ma è evidente che al di là della logica pena umana per ogni morto e ferito, occorre che l’organizzazione terrorista Hamas cessi dalla sua insistita determinazione a distruggere lo Stato d’Israele. Molte famiglie simili  alle nostre stanotte stanno di nuovo per affrontare una notte di incubo nei rifugi sotto un attacco che cerca i civili per ucciderli, e a loro va la nostra solidarietà mentre speriamo nella pace.” www.fiammanirenstein.com

LIBERO – Maria Giovanna Maglie : ” Israele è sotto attacco: fa benissimo a sparare “

Maria Giovanna Maglie  il sistema di difesa missilistico iron dome

Quello tirato su Tel Aviv èun missile iraniano, tanto per chiarire le idee a chi non avesse capito, perché obnubilato dalla propaganda europea e internazionale filoaraba e filopalestinese, o perché obnubilato dalla ideologia e faziosità filoaraba e filopalestinese, che l’attacco è guidato dallo Stato del terrorismo e degli ayatollah, che è inserito nella nuova e pericolosa realtà politica e sociale frutto della mai abbastanza vituperata primavera araba, che Israele risponde dopo che per settimane e settimane i missili da Gaza sono caduti sui suoi cittadini a centinaia. Immaginatevi di abitare al confine con la Svizzera, a Como, e che da oltre confine vi bombardino ogni giorno. Non reagite, continuate a subire, non proteggete gli abitanti? Non cercate di fermarli in qualche modo? Ecco, Israele ha deciso di fermarli, e mentre gli attacchi che subisce cadono nel silenzio complice, la risposta diventa di scandalo e indignazione internazionale, dall’Egitto dell’integralista Fratello Musulmano Morsi alle tremebonde cancellerie europee – con l’eccezione stavolta di quella italiana, per fortuna – fino a quei banditi degli hacker di Anonymous. Aggiungo alla disinformazione le parole usate nei telegiornali italiani della sera che, come ha fatto ieri Enrico Mentana dal Tg de La7, hanno parlato della «rappresaglia» su Gaza, denunciandola come un metodo tipico di Benjamin Netanyahu. D’altro canto, persino lo scrittore israelianoAbrahamYehoshua, alungo considerato un’icona del pacifismo, ha dovuto ammettere che «quelli di Hamas sono i nostri nemici, la guerra è inevitabile». Israele è un piccolo Stato e un grande Paese, vive circondato e assediato, è il nostro avamposto occidentale in terra ostile, ha un esercito e una intelligence adeguati alla bisogna e al rischio che corre, quando ha reagito lo ha fatto con una perfetta operazione mirata e ha fatto saltare per aria l’auto di Ahmed labari. Era il capo del braccio armato di Ha-mas, responsabile di decine di attentati contro Israele, il carceriere di Gilad Shalit per sei lunghi anni. Ma non era solo un capo militare, era anche un ideologo dell’unione tra Hamas e i salafiti, un fanatico dell’affermazione violenta della sharia, la legge islamica in luogo del diritto contemporaneo, un attivista della guerra santa in tutto il mondo musulmano. I salafiti, probabilmente al presidente Obama questo lo hanno ricordato, sono gli stessi che hanno organizzato la strage di Bengasi e il martirio dell’ambasciatore Chris Stevens. Gli Stati Uniti, con l’iniziativa del rappresentante Susan Rice, mantengono la posizione alle Nazioni Unite, ma all’Onu al doppio standard sono ormai abituati senza provar la minima vergogna; la riunione, appena iniziata mentre scrivo, prevede una risoluzione di condanna contro lo Stato ebraico, owero la stessa organizzazione che non ha ritenuto di dover mai dire una parola di fronte all’attacco reiterato contro Israele condotto da Hamas al sud e dalla Siria al nord, ora si affretta dietro la pressione dei Paesi arabi e dei loro amici occidentali a stigmatizzare le azioni di autodifesa da parte di Israele. La situazione della regione è pessima. L’Egitto ha ritirato il suo ambasciatore in Israele, e il presidente neoeletto Morsi ha denunciato l’attacco a Gaza come un attacco all’Egitto. Lontani i tempi del mediatore Hosni Mubarak, che amico di Israele certo non era, ma si muoveva nel solco di Camp David, che imponeva la moderazione e il compromesso in tutta l’area. Oggi i Fratelli Musulmani sono al potere in Egitto, dominano in Tunisia, ricattano governi pur moderati in Giordania e in Marocco, fanno la guerra civile insieme a salafiti e gaedisti in Siria e nel caos della Libia. Israele è consapevole del rischio tremendo e nuovo. La rielezione di Barak Obama, checché ne pensino i circoli progressisti europei, non aiuta. Il nuovo segretario di Stato, uscita la Clinton, dovrà ricominciare da capo. In Europa, dopo l’euforia della primavera araba, foraggiata e armata stoltamente soprattutto dalla Francia e dall’Inghilterra, è sceso una sorta di letargo: c’è l’economia a cui tardivamente e malamente pensare. Ma in viaggio diplomatico repentinamente interrotto per le capitali europee c’era il solito Abu Mazen, inutile sor tentenna dell’Autorità Palestinese, uno che fa fare ad Hamas tutto quel che Hamas vuole, e intanto gira a chiedere soldi. Un’occhiata alla carta geografica e alla dislocazione delle forze terroriste non farebbe male, per capire che Israele è sicuramente in prima fila. Subito dopo veniamo noi.

Il FOGLIO – Giulio Meotti : ” Filo diretto con l’Iran “

Giulio Meotti                Jihad islamica

Roma. La prima volta che fu chiaro a tutti che l’Iran aveva esteso la sua influenza a Gaza fu nel 1994, quando parlò il leader del “Harakah al jihad al islami al filastin”, il Jihad islamico palestinese, Fathi al Shikaki, che allora viveva a Damasco. Shikaki, che un anno dopo sarebbe stato eliminato dal Mossad a Malta, rivelò che l’Iran aveva stanziato tre milioni di dollari per sostenere le famiglie dei “martiri palestinesi”. Da allora, l’influenza di Teheran ai confini israeliani si è estesa a dismisura, così che oggi il Jihad islamico ha preso il posto di Hamas come riferimento degli ayatollah. Il più antico e militarizzato gruppo palestinese ha oggi ottomila combattenti e cinquemila missili, fra i quali quelli dalla più lunga gittata che possono colpire Tel Aviv: è stato il Jihad islamico a rivendicare il razzo Fajr 5 iraniano caduto ieri di fronte alla costa di Giaffa.. Negli ultimi due anni il gruppo non ha mai fermato il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza e si è opposto all’entrata in politica di Hamas. Come racconta Beverley Milton- Edwards nel suo nuovo libro “Hamas”, il Jihad islamico ha giustiziato numerosi contadini palestinesi che si erano opposti all’uso dei loro campi per il lancio dei missili. Da due anni, l’ala militare del Jihad, le Brigate al Quds, accusano Hamas di aver “abbandonato la resistenza” a beneficio del potere politico. “Sia Hamas sia l’Autorità palestinese sono simboli di lussuria e corruzione”, ha appena proclamato l’imam Abdullah al Shami, leader spirituale del Jihad. Aitante, carismatico, il predicatore infiamma la folla quando attacca non solo “l’entità sionista” ma anche i fratelli palestinesi al potere. Lo sceicco Shami ha lavorato per l’allineamento con Teheran e la scelta, come modello da imitare, degli Hezbollah libanesi. Il Jihad islamico è la prima storica sigla dell’islamismo palestinese e viene aiutato da Hamas in un gioco di responsabilità. Il gruppo nacque nel 1979 da una scissione di studenti palestinesi ospitati in Egitto dai Fratelli musulmani, quando il dottor Fathi al Shikaki s’infatuò della visione di Khomeini. Il suo successore, Ramadan Abdallah Shallah, è l’unico leader palestinese rimasto a Damasco durante la guerra civile siriana, mentre i capi di Hamas stavano già prendendo la via per Doha, in Qatar, spostandosi nell’asse sunnita. Secondo il giornalista investigativo israeliano Ronen Bergman, Shallah ha un filo diretto con la Guida suprema, Ali Khamenei. E’ stato Shikaki, non Hamas, ad aver inaugurato l’uso della bomba umana suicida come alternativa agli ordigni nucleari: “Il nostro nemico possiede le armi più sofisticate, noi il martirio”, ha detto il fondatore del Jihad. “E’ facile ed economico, al costo soltanto delle nostre vite. Le bombe umane non possono essere sconfitte, neanche da quelle nucleari”. Oggi Teheran garantisce loro rifugi, finanziamenti e armamenti e il Jihad ha uffici a Khartoum, a Beirut e a Damasco. Nella libanese valle della Bekaa si trovano dirigenti del gruppo palestinese che assicurano logistica e addestramento per gli esecutori degli attacchi missilistici. Abu Jandal, uno dei leader del gruppo, ha ammesso che il Jihad, per difendersi dalle possibili incursioni israeliani, ha già predisposto un metodo nuovo: bambini dotati di cinture esplosive a presidio degli edifici a Gaza dove risiedono i capi del movimento. Lo studioso israeliano Meir Hatina, analista della galassia terroristica palestinese, ha bene sintetizzato la visione del Jihad: “Mentre Hamas ha scelto una combinazione di educazione islamica e violenza per la liberazione, il Jihad islamico è sempre stato il ragazzo cattivo della politica palestinese il cui scopo principale è la liberazione di tutta la Palestina. Il Jihad si vede come il punto centrale nel confronto fra occidente e islam”.

Il FOGLIO – Andrea Marcenaro : “Andrea’s version”

Andrea Marcenaro

Siccome già bisogna pensare alla sopravvivenza dell’Alcoa, di Laura Puppato, dell’orario corto dei professori, dell’Ente lirico di Mirabella di sotto, di Paolo Flores, dell’esperimento di Alfano, di Liberal-quotidiano- in-edicola, della panchina del Milan, della corporazione dei notai, degli incarichi extragiudiziari dei magistrati, delle comunità montane, dei talk-show televisivi che annaspano, dell’onorevole Donadi, della Nazionale cantanti, dei giovani registi del nuovo cinema italiano, dell’ex Petruzzelli, degli ex An, del ruolo di Riccardi più Luca Cordero, dell’aquila di Bonelli in pericolo di estinzione, e vedi mai di Giuliano Amato, dove vai a trovarlo un ritaglio di tempo per pensare pure alla sopravvivenza di Israele?

La STAMPA – Elena Loewenthal : ” La banalità del terrore. Vivere sotto le bombe che cadono ogni giorno”

Elena Loewenthal               l’appartamento a Kiryat Malachi

Più o meno è così. Da oltre il confine, potrebbe essere il Colle del Monginevro o la lacustre Chiasso o Mentone in riviera, sparano dei razzi. Quattro, cinque, anche più al giorno. I razzi hanno una gittata limitata. Forse. Arrivano a Chiomonte, Bussoleno. Oppure a Como, a Monza. Danneggiano case e lungomare di Ventimiglia, si vedono distintamente da Imperia. Qualcuno punta più in là, arriva fino all’hinterland milanese. Oppure Susa, dove la valle si apre verso la Pianura Padana, le città. O Savona, Sanremo. Lo stillicidio, che a volte ha proprio l’aspetto di un bombardamento, va avanti per mesi. Di fatto, con qualche interruzione, per anni e anni. I missili fanno ormai parte di una quotidianità sbalestrata per tutti gli abitanti della Valle di Susa, per la popolosa Brianza. Ovviamente il turismo è scomparso da quel tratto di Liguria dove i fuochi d’artificio sono all’ordine del giorno. Ma l’abitudine non significa rassegnazione, significa piuttosto una rabbia e una paura costanti. La convinzione che non si può andare avanti così.
Nel Sud d’Israele questa è la vita. Né più né meno. Beer Sheva, Ofakim, Sderot, Ashkelon e tanti altri luoghi popolosi, kibbutz, cittadine vivono così da anni. Negli ultimi due mesi i lanci di missili da Gaza si sono intensificati: ne sono arrivati a centinaia, in continuazione. Guardando a quello che succede ora non ci si può esimere dal provare a mettersi in questi panni, a cercare di capire come si vive. E non si tratta di coloni agguerriti: i missili di Gaza, che gli israeliani hanno sgomberato da anni ritirandosi da quella porzione di Territori Occupati, colpiscono una porzione di Israele che rientra nei confini del 1948. Abitata da gente «normale», proprio come noi.
In Israele la prendono così. Anche con le battute di spirito (amare). Come questa: quando da queste parti si sente l’ululato di una sirena, non state a guardarvi alle spalle per vedere da dove arriva l’ambulanza. Correte a gambe levate verso il rifugio, piuttosto, perché altrimenti dell’ambulanza dovreste aver bisogno voi entro pochi minuti. In questo piccolo paese – tutto Israele equivale più o meno alla Lombardia con il più alto tasso di luoghi sacri e start up del mondo, ogni stabile, grande o piccolo che sia, deve infatti per legge avere il suo rifugio antimissili. Le norme prevedono che contenga kit di sussistenza e pronto soccorso adeguati. Nei tempi relativamente tranquilli viene adibito a deposito, anche se non si dovrebbe. Ma è sempre lì, il rifugio: bene indicato per non perdere tempo a cercarlo, correndo quando la sirena suona.
Nel Sud d’Israele la strada per il rifugio di casa la conoscono tutti a memoria, perché ormai da mesi le sirene suonano in continuazione. Le scuole aprono a singhiozzo, a dire il vero sono più chiuse che aperte. Il fatto che sino a ieri non ci fossero state vittime non dipende dalla volontàdichimandaquei razzi. Non partono da Gaza per fare il solletico, movimentare il cielo mediorientale. E nemmeno soltanto per intimidire. Fosse per loro e chi li manda, quei razzi ucciderebbero più civili possibile. I civili israeliani questo lo sanno bene. Anzi, se lo sentono addosso. Il fatto che uccidano di rado dipende dal sistema di avvistamento, dalle sirene, dai rifugi, dalla loro gittata limitata, ma sempre più lunga e minacciosa, grazie ai tunnel attraverso i quali le armi arrivano clandestinamente a Gaza.
Quando suona la sirena si molla tutto e si corre. Qualcuno magari si è stufato e resta dov’è, a suo rischio e pericolo. Da dentro i rifugi non sai che cosa sta succedendo. Cessato l’allarme, esci fuori e chissà che cosa trovi. Sotto la luce del sole o nel buio della notte per prima cosa ti guardi intorno, per cercare la nuvola di fumo. Il missile, infatti, casca a terra, devasta in modi diversi ma produce sempre un nuvolone di fumo scuro e lento che sale. Lo cerchi, e capisci subito quanto lontano – o vicino – è caduto da te. Il che può anche significare che è finito dentro casa tua e te l’ha sfasciata. Capita spesso. E speriamo che la vecchietta del terzo piano fosse andata a trovare sua figlia a Gerusalemme, perché nel rifugio non c’era e se è rimasta a casa, povera lei. E neanche oggi, neanche domani si può pensare a una vita normale, di banali spostamenti da un quartiere all’altro della città per fare la spesa, andare in posta, dal dottore.
Oggi si parla di venti di guerra, ci si spaventa davanti alle due parole «raid israeliano», si contemplano bocche spalancate nel terrore e si piangono i morti: perché Israele si complica così la vita? Perché si accanisce sui palestinesi? Ah certo, è iniziata la campagna elettorale nel Paese… Reazioni e giudizi più che leciti. A patto, però, di provare a mettersi nei panni di chi vive nel Sud d’Israele, territorio non conteso della causa palestinese, e immaginare come ti sentiresti se la stessa «normalità» ti toccasse a Como, Bordighera, Ivrea e tanti altri posti sotto il tiro di un fuoco nemico e non sai il perché.

Il GIORNALE – Vittorio Dan Segre : ” Un confronto militare che deve durare poco per l’interesse di molti “

Vittorio Dan Segre una delle vittime di Hamas a Kiryat Malachi

Difficile prevedere quali saranno le ricadute a medio e lungo termine della nuova battaglia fra Israe­le e i palestinesi a Gaza. Nell’im­mediato è possibile registrare chi guadagna o perde in questa prima fase del conflitto. Fare un primo bilancio dei possibili guadagni e perdite per gli stati interessati. L’Egitto fa la voce grossa riti­rando il suo ambasciatore da Tel Aviv e minacciando di viola­re gli impegni presi con la firma del trattato di pace con Israele inviando truppe nel Sinai demi­litarizzato. Israele non è di me­no mobilitando le sue riserve. Ciononostante la crisi sembra meno grave di quanto può ap­parire dai titoli dei media an­che perché le parti stanno tiran­do le somme di queste due pri­me giornate di guerra. Netanyahu guadagna senza dubbio e probabilmente non vuol perdere i vantaggi acquisi­ti. Rispondendo al lancio di più di 200 razzi sul suo territorio -che hanno creato morti, vari fe­riti e un milione di israeliani nei ricoveri – ha già ottenuto quattro risultati: ha compatta­to dietro di se un paese forte­mente diviso sulle questioni so­ciali;entra nella campagnaelettorale per le elezioni di gen­naio con l’immagine di leader deciso che nessun altro politi­co israeliano possiede; ha di­mostrato di non preoccuparsi come il suoi predecessori dell’ opinione internazionale; ri­prende una libertà d’azione nei confronti di Washington che la rielezione di Obama sem­bravaaver considerevolmente ridotto. Infine rinvia -anche se non abbandona- il momento di agire militarmente contro l’Iran. Guadagna l’Autorità palesti­nese che senza formalmente abbandonare la sua campagna diplomatica per ottenere il rico­noscimento dell’Onu a uno sta­to palestinese è tutt’altro di­spiaciuta nel vedere Israele fa­re «lo sporco lavoro» contro Ha­mas, suo mortale rivale. L’offensiva israeliana su Ga­za i­mbarazza il governo dei Fra­telli musulmani del Cairo vota­tiper ragioni ideologiche e di prestigio alla difesa del gover­no dei Fratelli musulmani di Gaza. Dimostra il fallimento dei suoi sforzi per ottenere il ri­spetto del cessate il fuoco delle frange radicali islamiche ostili ai Fratelli musulmani non me­no che a Israele. Allo stesso tem­po questa crisi offre al Cairo la possibilità di mostrarsi durocon Gerusalemme (ritirando da Tel Aviv l’ambasciatore ap­pena nominato inviando forze militari nel Sinai) di acquistare prestigio, aumentando il suo peso nei confronti di Washin­gton senza tema di rischiare un conflitto con Israele (che non vuole mettere a repentino la pa­ce con l’Egitto) e al quale l’Egit­to non è preparato. Due sono le grandi incogni­te: quello che farà Washington e quello che farà Ankara. Oba­ma invischiato come è negli scandali militari in casa e impe­gnato a sollevare­l’America dal­la crisi economica sembra mol­topiù cauto del passato nel prendere iniziative nel Medio Oriente. Il premier turco alle prese con la crisi siriana ma allo stes­so te­mpo impegnato a condur­re una forte azione di propagan­da anti israeliana (con il proces­so in con­tumacia contro massi­mi esponenti militari israelianiconsiderati responsabili della morte di 8 cittadini turchi sulla nave Marmara che cercava di rompere il blocco di Gaza due anni fa) potrebbe sfruttare la nuova crisi palestinese a suo fa­vore. Quello che conta in questo momento per tutti è riuscire a contenere la crisi in tempi bre­vissimi. Se durasse contagian­do la regione sarebbe un disa­stro che nessuno degli attori è preparato ad affrontare. Uno sviluppo che al di là delle varie retoriche nessuno degli attori desidera in questo momento veder concretizzarsi.

La REPUBBLICA – Bernardo Valli : ” L’Egitto in aiuto di Hamas sul conflitto Israele-Gaza “

Bernardo Valli         Mohamed Morsi

La Striscia non è più isolata, rischio contagio. Molte cose sono cambiate dal 2008: i Fratelli musulmani sono al potere al Cairo e la guerra civile infuria nella vicina Siria. La nuova fiammata, nel cronico conflitto tra Israele e Gaza, avviene in un Medio Orienteprofondamentecambiato. La situazione nella regione è più confusa e più esplosiva. ED È pericoloso accendere fuochi in prossimità di una polveriera. Eppure è quel che hanno fatto e fanno i due contendenti. In un anno più di 750 razzi partiti da Gaza sono piovuti sul Sud di Israele, ma quelli risultati micidiali (tre morti nel piccolo centro di Kiryat Malachi), sono stati lanciati dopo che un missile aveva ucciso Ahmed al-Jabari, capo militare di Hamas, mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza. Dopo una lunga, rischiosa routine, dopo una contenuta ostilità, l’omicidio mirato ha riacceso il conflitto. Nei quattro anni trascorsi dall’inverno 2008-9, quando l’operazione israeliana (Piombo fuso) fece milletrecento morti nella Striscia di Gaza, provincia separata e non occupata della Palestina, sono intervenuti tanti mutamenti. Mi limito ai due più rilevanti prodotti dalla ” primavera araba”: i Fratelli musulmani sono arrivati al potere nel vicino Egitto e la guerra civile infuria nell’altrettanto limitrofa Siria. La destituzione al Cairo di Hosni Mubarak, il raìs con il quale per Gerusalemme era facile accordarsi, e l’elezione al suo posto del presidente Mohamed Morsi hanno creato seri problemi tra le due capitali. Ed è finito l’isolamento di Gaza. Il movimento Hamas, che la governa, è infatti un’emanazione, sia pure distinta, della Confraternita dei Fratelli musulmani La solidarietà di Morsi è un gesto di sfida. Una crisi con lo Stato ebraico spezzerebbe i precari equilibri nell’area al governo al Cairo, e dalla quale Morsi proviene. Oltre ai già difficili rapporti con l’ex alleata Turchia, Israele deve adesso gestire un’agitata relazione, o una pace ancora più fredda, con l’Egitto al quale è legato dagli accordi di pace, conclusi a Camp David nel 1978. I raìs non erano troppo presentabili, ma avevano una qualità: erano interlocutori che non dovevano tener conto delle opinioni dei sudditi, disciplinati da poliziotti e soldati. Il dialogo con loro era diretto. L’egiziano Morsi, eletto al suffragio universale diretto, deve adeguare, almeno in parte, la sua sensibilità di fratello musulmano moderato alle esigenze dei concorrenti sala-fiti, musulmani più radicali, che chiedono di rivedere i rapporti con Israele. Ed esigono più solidarietà con Gaza governata da Hamas. E cosi Morsi non è rimasto immobile come il predecessore Mubarak. Ha interpellato la Casa Bianca. Ha richiamato l’ambasciatore da Israele. Si è rivolto alla Lega Araba e al Consiglio di Sicurezza. Hapronunciato severecondanne alla televisione. E oggi manda il suo primo ministro sul posto, a Gaza, con l’incarico di verificare i danni subi -ti dalla popolazione, di rendere omaggio ai morti (finora ne sarebbero stati contati diciannove) edistudiarel’invio di aiuti urgenti. In realtà si tratta di una visita con un alto valore politico. L’Egitto dimostra in concreto la sua solidarietà all’avversario di Israele. Un gesto che equivale quasi a una sfida. Gli israeliani oseranno bombardare Gaza durante la visita del primo ministro egiziano? Una crisi seria tra Egitto e Israele spezzerebbe i precari equilibri mediorientali. BarackObamahadedicato nelle ultime ore non poco del suo tempo nel tentativo di placare gli animi degli uni e degli altri. Ha dosato le parole. Ha riconosciuto il diritto di Israele a difendersi dalla pioggia di razzi, ma ha invitato a moderare le reazio -ni. E ha ascoltato a lungo il presidente egiziano, indignato ma non minaccioso. In quanto alla Siria è un vulcano in eruzione che rischia di travolgere l’intera regione, ed è comunque una fonte di violenza alle porte di Israele. Oltre le alturedelGolan,confinecontestatotra lo Stato ebraico e la Siria frantumata, infuria una mischia in cui anche la super-esperta intelligence israeliana deve stentare a riconoscere amici e nemici. E deve faticare a evitare le infiltrazioni. Perché ad Aleppo, a Homs, e nei para della stessa Damasco, opera -no gruppi armati di varie tendenze. Dai laici agli islamisti moderati ai jihadisti. Gli iraniani, irriducibili avversari di Israele, appo ano il regime di Damasco, e al tempo stesso sono amici di Gaza Ma anche il ricco Qatar, che appoggia i ribelli, si è manifestato come un benefattore di Gaza. E questo vale per  l’Egitto e la Turchia, potenze sunnite e nemiche del regime sciita di Bashar el Assad. Del quale anche gli americani, amici e protettori di Israele, ma non di Hamas, auspicano la destituzione. Israele si trova dunque al centro di un panorama mediorientale politicamente imprevedibile, in cui non èfacile orientarsi. E per un vecchio riflesso condizionato alza il tradizionale “muro di ferro”. Sfodera la sua forza. L’attacco all’Iran è per il momento rinvia-tosinedie. La conferma di BarackObama ha allungato i tempi. Benjamin Netanyahu sperava in una vittoria del suo avversario, un falco come lui; e tuttavia Obama non ha tenuto conto della sua dichiarata ostilità durante la campagna elettorale. E ha subito dimostrato cheil legame degli Stati Uniti co n Israele non poteva essere in alcun modo inquinato. Ma per lui il problema nucleare iraniano richiede più pazienza. E quest’ultima, la pazienza, non è unavirtù di Netanyahu. Il quale ha sentito subito il bisogno non solo di far cessare la pioggia di razzi proveniente da Gaza, ma anchedi dimostrareal Medio Oriente agitato e imprevedibile che Israele sa reagire con determinazione, che né la sua volontà politica né la sua forza militare si sono arrugginite. II messaggio ci sembra indirizzato all’Iran, all’Egitto, alla Siria, non unicamente alla piccola, fastidiosa, ma non più tanto isolata Gaza. Etra i destinatari ci sono i palestinesi in generale, quelli che tramite l’incruento Abu Mazen, capo dell’altra Palestina, quella occupata, tra dieci giorni chiederà ancora una volta di essere rappresentata più degnamente all’Onu. Inoltre, come quattro anni or sono, ai tempi dell’operazione “Piombo fuso”, Israele è alla vigilia di nuove elezioni. E la fermezza gioca in favore di Netanyahu. Gli imperativi tattici si confondono con quelli elettorali. Eperil momento sommergono i rischi reali.

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