Ci sono tre motivi per spiegare la dura reazione di Israele all’ingresso della Palestina nell’Onu come membro osservatore: due politici, uno economico.

Ci sono varie possibili interpretazioni del fatto che Israele, provocando l’ira di Washington, dell’ONU, e di una parte notevole dell’opinione pubblica israeliana stessa – per non parlare di quella mondiale – ha deciso di reagire all’accettazione della Autorità palestinese all’ONU come stato osservatore in maniera non solo brutale ma provocativa. La prima e più comune è il desiderio del Premier Natanyahu (scosso dal successo che l’ala estremista del suo partito ha ottenuto nelle primarie del Lilud), di scavalcare a destra i suoi detrattori con misure antipalestinesi per garantirsi un largo sostegno nelle elezioni generali fissate per il 22 Gennaio.

Considerazioni elettorali non si possono certo escludere, ma non bastano a spiegare questa furiosa e, per molti osservatori, controproducente reazione di Gerusalemme. Una seconda ragione, avanzata da vari analisti e legata alle dichiarazioni del mese scorso di ministro degli esteri, é che a Israele conviene provocare la caduta di Mahmud Abbas tornato trionfatore a Ramallah dal riconoscimento dello stato palestinese dalla Conferenza Generale dell’ONU il 29 Novembre. Non solo Abbas non controlla un terzo dei palestinesi in Palestina (che si trova sotto il suo avversario Hamas a Gaza), ma è inutile trattare con una entità che ha fatto del vittimismo e delle sue accusa a Israele la sua strategia politica. Mahmud Abbas non ha nulla da offrire, nulla da garantire per cui ogni trattativa con lui é priva di valore. Se esiste un’entità palestinese con cui vale la pena di trattare  questa è Hamas perché se non altro può offrire una tregua d’armi (come si é visto con il recente scontro a con Gaza), è meglio attendere che maturino le condizioni per trattare con questa (come del resto si é già fatto sottobanco sia per la liberazione del soldato Shalit sia per definire le condizioni della tregua – come si sta facendo in questo momento al Cairo). C’é tuttavia chi pensa che ci siano ragioni più profonde per questa politica anti stato palestinese. Al Middle East Forum tenutosi via conference call l’8 novembre scorso Lawrence Solomon, uno dei più noti esperti di energia e del suo impatto sull’ambiente, amministratore delegato della Energy Probe Research Foundation di Toronto, ha sostenuto la seguente tesi che è condivisa dalla maggioranza degli esperti politici israeliani. Prima della guerra del 1973 non solo Israele costruiva a Gerusalemme unita dalla guerra del 1967 e nelle zone occupate ma era anche il beniamino di molti stati in particolare di quelli africani. La crisi energetica provocata dall’OPEC dopo la guerra del Kippur, diede inizio all’isolamento politico di Israele grazie all’arma del petrolio saudita puntata non solo contro lo stato ebraico ma contro ogni stato che lo sostenesse. Il prezzo del petrolio triplicò, Yasser Arafat fu accolto armato all’Assemblea Generale dell’ONU che l’anno seguente bollò il movimento di liberazione ebraico, il sionismo, come razzista. Da allora l’isolamento e la delegittimazione di Israele non fecero che aumentare. Ciò che ora sta succedendo é la rivoluzione nel mercato energetico grazie, non solo alla scoperta di sempre nuovi giacimenti sottomarini di gas davanti alle coste israeliane e di Cipro ma al perfezionamento delle tecniche di estrazione del petrolio dalle rocce Shale.

Da:IlGiornale

 

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