1103Testata: Informazione Corretta
Data: 11 marzo 2013
Autore: Ugo Volli.

Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli.

 

Cari amici,

venerdì sera è mancata Isa Corinaldi De Benedetti z”l, madre di Claudia De Benedetti, presidente della sezione italiana dell’Agenzia Ebraica e collaboratrice di IC7 di Informazione Corretta, oltre che mia carissima amica: una signora molto riservata, di poche parole, assai attaccata alla piccola comunità ebraica di Casale che aveva sostenuto organizzando una fondazione per tutelare la sua tradizione e il suo splendido patrimonio culturale.

Oltre a rinnovare qui le condoglianze mie e di IC alla famiglia, vorrei partire da questo triste evento per riflettere sulla condizione dell’ebraismo italiano. La prima considerazione è questa: gli ebrei sono pochi, pochissimi in tutto il mondo, una quindicina di milioni, meno del due per mille della popolazione del pianeta. E sono altrettanto pochi in Italia: venti o venticinque mila se ci limitiamo agli iscritti alle comunità, meno della metà dell’un per mille, forse altrettanti non iscritti. Se ne parla moltissimo, escono migliaia di articoli di giornale all’anno non solo sulle questioni che riguardano Israele, ma sulla cultura e la religione ebraica, ma sono l’equivalente di un paese, non di una cittadina o della circoscrizione di una città. E’ una popolazione che si concentra soprattutto fra Roma e Milano e che altrove si conserva in nuclei di poche famiglie. Questo è un altro punto importante, che è sottolineato dal lutto che vi sto partecipando: l’ebraismo si conserva nelle famiglie, prima che nelle scuole comunitarie e nelle sinagoghe, dove ci sono e funzionano. Sono famiglie che spesso hanno una storia antica intrecciata con quella della città o della nazione, ma altre volte sono immigrate in Italia più o meno di recente per sfuggire alle persecuzioni, come è il caso di quelle numerose che provengono dalla Libia a Roma, o dal Libano dalla Siria e dalla Persia a Milano.

La trasmissione familiare crea vincoli fortissimi e impegni che durano tutta la vita, com’è il caso di cui stiamo parlando; ma è fragile. Basta che una generazione si allontani dalle proprie radici, ceda alla pressione alla conversione che è stata attiva e intenzionale per millenni nel mondo cristiano e in quello islamico, o a quella più subdola e inintenzionale ma altrettanto forte che nella nostra società porta all’assimilazione, e il ritorno alla vita ebraica diventa molto difficile, anche se il richiamo della tradizione è molto forte, per chi ha orecchi per intendere.

In realtà delle poche decine di migliaia di ebrei italiani la maggior parte non si occupa attivamente del proprio ebraismo. Il che non significa solo non essere religiosi e osservanti (in questo caso i numeri decadrebbero alle centinaia), ma assai più genericamente non fare granché per custodire e sviluppare la propria identità collettiva. Oltre al richiamo religioso, contano certamente fra i motivi di identificazione con l’ebraismo il richiamo a una grande tradizione culturale, il ricordo della Shoà che spesso non è generico ma riguarda vicende familiari ben precise e il legame con lo Stato di Israele, dove si sono trasferite nei decenni molte migliaia di ebrei italiani, spesso i più impegnati e attivi, che non hanno perso però del tutto i loro legami familiari, la loro specificità.

Contro questi fattori di radicamento giocano moltissime cause di disgregazione: le regole di funzionamento di una società omogeneizzata da gusti, abitudini, tradizioni, riti collettivi ben diversi; un certo latente antisemitismo e palese inimicizia per Israele che circola nella nostra società; la stessa difficoltà di praticare una cultura come quella ebraica formulata in una lingua che non è quella di comunicazione comune oggi ed è estremamente esigente sul modo di vivere, di mangiare, di usare il tempo, di compiere i gesti quotidiani. Un altro fattore di erosione è stato certamente la trasformazione dell’ebraismo, che è una “forma di vita”, una coscienza specifica di un popolo, in una spinta universalistica per valori etici come la “giustizia” o francamente politici come “il socialismo”.

Questa strana reinterpretazione politica dell’ebraismo si è diffusa negli intellettuali ebrei di tutt’Europa a partire dalla metà dell’Ottocento almeno, ed è essa stessa una via di fuga dall’ebraismo; si può pensare come una risposta più o meno sofisticata, ma certamente autodistruttiva e complice, benché nobilmente allestita, alle pressioni antisemite che rimproverano all’ebraismo un “esclusivismo” o addirittura un “tribalismo” (come già fece in sostanza la Chiesa delle origini definendosi “cattolica”, cioè “universale”). Restare ebrei, cioè mantenersi fedeli alla cultura e alla tradizione dei Israele, a un’identità specifica immersa in un mondo diverso vuol dire resistere alla sfida di coloro – il Cristianesimo e l’Islam, il comunismo e il progressivismo illuminista –  che ripetono di essere loro i migliori interpreti etici della spinta universale che per un tempo (ma ormai in passato) si è iscritta nella tradizione di Israele. Così non è, naturalmente. Le identità culturali non si succedono per superamenti e rifusioni, ma il loro valore sta nella dialettica delle differenze. Ma la tentazione della subordinazione dell’identità ebraica all’ideologia che la nega e quindi l’assunzione di pregiudizi e inimicizie, oggi focalizzate contro Israele è ancora fortissima, anche nell’ebraismo italiano: non solo nella frange più militanti e spettacolari, ma anche nel cuore stesso dell’organizzazione comunitaria e dei suoi intellettuali organici.

Vi è dunque un merito specifico, una forza essenziale nella conservazione dell’identità ebraica dove essa vive nelle comunità e nelle famiglie. C’è un detto tradizionale ebraico secondo cui l’ebraismo di una persona non si vede da quello dei suoi avi, ma dei suoi nipoti. Anche per questa ragione chi è attaccato all’ebraismo e ha conosciuto lei e la sua famiglia ricorderà con gratitudine Isa De Benedetti.

 

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