Testata:La Repubblica – Il Foglio – Corriere della Sera
Autore: bernardo Valli – Tahar Ben Jelloun – Bret Stephens – Andrew Tabler – Guido Olimpio
Titolo: «Il giorno dopo la vittoria di Assad. Ipotesi (disastrose) di una Siria condannata al regime – Così Damasco muove i fili delle sue ‘pedine’ all’estero – La legge della giungla»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 29/08/2013, a pag. 1-13, l’articolo di Bernardo Valli dal titolo ” Una missione ambigua “, a pag. 1-15, l’articolo di Tahar Ben Jelloun dal titolo ” La legge della giungla “, preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. I, l’articolo di Bret Stephens dal titolo ” Il bersaglio è Assad “, l’articolo di Andrew Tabler dal titolo ” Il giorno dopo la vittoria di Assad. Ipotesi (disastrose) di una Siria condannata al regime “. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, l’articolo di Guido Olimpio dal titolo ” Così Damasco muove i fili delle sue «pedine» all’estero “.

Ecco i pezzi:

La REPUBBLICA – Bernardo Valli : ” Una missione ambigua “


Bernardo Valli

L’operazione siriana si annuncia come un intervento chirurgico di alta precisione, sul piano politico e militare. È presentata come un attacco “ limitato”, non solo nel tempo ma anche nelle intenzioni.
L’obiettivo non è infatti di abbattere il regime di Assad. Gli americani e i loro stretti alleati inglesi si propongono di infliggere al rais di Damasco una lezione, affinché non osi più compiere stragi di suoi connazionali con il gas nervino come è accaduto nella pianura della Ghouta. Dunque si tratta di un’azione punitiva e dissuasiva. Ed è definita anche di “principio”: la violazione delle norme internazionali non può restare senza risposta. Inoltre è in gioco la credibilità del presidente americano, impegnatosi un anno fa a reagire nel caso venisse superata la “ linea rossa”, ossia fossero impiegate armi tossiche. Gli Stati Uniti ripetono con insistenza che non vogliono entrare nella guerra civile siriana, che non è nelle loro intenzioni schierarsi con una delle parti a confronto. La precisazione suona ambigua, perché l’ostilità americana, e quella occidentale in generale, al regime di Assad è stata proclamata da tempo, ed è stata accompagnata da aiuti (purtroppo insufficienti) alle organizzazioni moderate, laiche, della ribellione. In realtà la precisazione rivela il timore che una volta abbattuto il rais di Damasco gli subentrino al potere i jihadisti, i fondamentalisti, ispirati o imitatori di Al Qaeda, o per semplicità indicati con quella sinistra etichetta. È difficile infatti stabilire quanto pesino quest’ultimi nell’opposizione rispetto all’Esercito siriano libero, una forza laica in cui gli occidentali ripongono la loro fiducia pur non giurando sulla sua capacità di imporsi. Secondo questa visione la guerra civile siriana, in cui sono implicati quasi tutti i Paesi vicini, non è alimentata da due soli schieramenti contrapposti. Nell’opposizione si scontrano diverse correnti. Da qui la necessità di non abbattere Assad per non creare un vuoto in cui si installerebbe un potere islamista. Lo si deve indebolire, abbastanza per indurlo a comportarsi meglio nella repressione e magari a trattare, ma non troppo perché potrebbe crollare. I quattro incrociatori della US Navy al largo della costa siriana dovrebbero lanciare i loro Tomahawk con la precisione appunto di un chirurgo impegnato in un intervento in cui oltre al bisturi è indispensabile il microscopio. I missili dovranno essere intelligenti: indebolire Assad ma non favorire Al Qaeda. È un lavoro fine, da diplomatici di qualità. I Tomahawk dovranno ubbidire ai principi di Clausewitz ed essere, in quanto strumenti di guerra, una continuazione della politica: quindi colpire nella sanguinosa mischia seguendo i sottili calcoli degli strateghi occidentali, che hanno lasciato ingrandire il tumore siriano e che adesso sono scandalizzati per l’uso dei gas nervini e in preda al panico davanti a una metastasi. In realtà quei missili sono destinati a salvare le coscienze. Hanno una missione dimostrativa. E ci si deve augurare che per vendicare le centinaia di morti del 21 agosto non se ne facciano mille di più. Ma se l’esito dell’intervento mirato appare incerto, un non intervento avrebbe a questo punto effetti disastrosi sulla credibilità di Barack Obama, per via del famoso e incauto annuncio della “linea rossa”. Insomma tutto questo assomiglia a una trappola. Il regime degli Assad cominciato più di quarant’anni fa, era probabilmente destinato a un giusto naufragio. L’avrei salutato con sollievo, pensando alle migliaia di vittime fatte da Hafez, il padre defunto, e da Bashar, il figlio salvato dall’Iran. La teocrazia fondata da Khomeini si è intromessa nella guerra civile siriana facendone un terreno di scontro del più ampio conflitto tra sciiti e sunniti. Assad jr, considerato un laico, è stato ed è tenuto a galla dagli ayatollah di Teheran. Ed anche dai vecchi rapporti con la Russia, che ha in Siria il suo solo porto sul Mediterraneo, quello di Tartus. Non una base militare vera e propria, ma un attracco amico dove la flotta russa, proveniente dal Mar Nero e diretta a Gibilterra, trova un’incondizionata assi- stenza. È quel che resta dei tempi in cui la flotta sovietica spadroneggiava tra Alessandria e Algeri. Per l’Iran e per la Russia la Siria è un alleato irrinunciabile. La caduta di Assad, appartenente a una setta sciita (quella degli Alawiti), significherebbe l’isolamento per gli ayatollah di Teheran. I sunniti al potere a Damasco sarebbero alleati preziosi per i sunniti dell’Iraq, dove già sono in lotta aperta con gli sciiti (a Bagdad si contano decine di morti quotidiani). E i contatti tra l’Iran e gli Hezbollah libanesi, punta di lancia sciita contro Israele e stretti alleati di Assad, sarebbero molto più difficili. Quando gli americani insistono sul carattere “limitato” della loro eventuale operazione siriana, pensano alle reazioni russe e iraniane. Nel caso la punizione inflitta dalla Sesta flotta si rivelasse troppo pesante, Mosca potrebbe aumentare gli aiuti militari che già fornisce al regime di Damasco, e Teheran potrebbe moltiplicare gli iraniani che già combattono a fianco delle truppe di Assad. Invece di risultare indebolito, Assad uscirebbe rafforzato dalla lezione impartitagli dagli americani. Gli Hezbollah si dedicherebbero con maggior zelo al terrorismo in Libano. Sul piano strettamente militare, quali obiettivi colpire con i Tomahawk? I bersagli di cui si parla non sono certamente quelli che saranno presi di mira. Non si rivelano al nemico i piani della battaglia imminente. È comunque assai improbabile che vengano colpiti gli stabilimenti in cui si preparano i gas nervini. Il pericolo di inquinamento lo sconsiglia, secondo gli esperti. E le varie intelligence non escludono che unità ribelli, in particolare jihadiste, ne siano entrate in possesso. Aeroporti, caserme, comandi militari sono obiettivi vulnerabili. Ma il regime di Damasco ha avuto tutto il tempo di creare scudi umani e domani potrebbe denunciare la strage. Invece di correre il rischio di aggiungere morti ai morti, si possono appesantire seriamente le sanzioni contro i dirigenti siriani; si può affrontare diplomaticamente con decisione la Russia, affinché allenti l’aiuto a Assad; si può negoziare con l’Iran. Ma soprattutto si devono dare infine all’opposizione siriana laica le armi necessarie per difendersi, ed anche l’appoggio per imporsi ai jihadisti. E tracciare un piano per il dopo Assad. Non c’è soltanto la politica delle cannoniere, che nella collera può essere approvata e sollecitata. Ma non con la ragione.

La REPUBBLICA – Tahar Ben Jelloun : ” La legge della giungla “


Tahar Ben Jelloun

Il genocidio siriano indigna Tahar Ben Jelloun, vien da dire ‘alla buon’ora’. Sempre pronto a riconoscere gli errori dell’Occidente, sempre disponibile a stottostimare il fondamentalismo connaturato anche all’islam moderato, oggi riconosce la giustezza di un intervento che, però, come abbiamo scritto molte volte, doveva partire fin dalle prime stragi della guerra civile. 100.000 ammazzati dai carri armati non hanno destato indignazione sufficiente per giustificare l’intervento. Ci voleva qualche migliaio di gasati per far capire che la linea rossa era stata superata.

No, l’indignazione non basta, e non serve a niente. Non bastano le parole, e neppure la nausea, a far dimenticare il massacro commesso mercoledì 21 agosto dalle truppe di Bashar al Assad. Immagini insostenibili: corpi di bambini, monconi di esseri umani, resti di organi coperti da teli bianchi. Centinaia di bimbi, che evidentemente erano tutti pericolosi terroristi, salafiti armati, agenti stranieri inviati per destabilizzare il regime di Bashar al Assad. Lo si vede dai loro volti, devastati dall’azione tossica della sostanza usata contro di loro. Ciò che sta accadendo in Siria da oltre due anni dimostra che le Nazioni Unite sono un «aggeggio» inservibile. Incapaci anche di alzare i toni. E non in grado di fermare un criminale dal cuore di bronzo che non si spezzerà mai. Allora, i popoli del mondo devono sapere che se domani un dittatore decide di commettere un genocidio, non saranno le Nazioni Unite, e neppure i Premi Nobel per la pace ad accorrere in loro aiuto. Creperanno, secondo la legge della giungla. Già da tempo si sarebbe dovuto spiccare un mandato d’arresto internazionale contro quell’assassino, figlio di un assassino. (Hafez non ha forse gasato più di 20.000 persone in una sola notte a Hama, il 4 febbraio 1982 — come già Saddam Hussein, che aveva gasato gli abitanti di Halabja il 16 marzo 1988?) Forte del sostegno di regimi vomitevoli come quelli della Russia, della Cina e dell’Iran, Bashar al Assad crede che tutto gli sia permesso. La tesi dell’islamizzazione della rivolta terrorizza e blocca gli occidentali. Gli esperti (di un bel nulla) ci dicono: meglio una dittatura che garantisca l’unità del Paese di una repubblica islamica, che ucciderebbe tutti i cristiani. Al momento, questa tesi fa il gioco di Bashar al Assad e della sua tribù. I siriani che sono scesi in piazza all’inizio non erano armati; non esibivano bandiere nere, né slogan religiosi. Assad ha dato l’ordine di abbatterli a colpi di mitraglia. Suo padre gli aveva insegnato a non tollerare mai nessun tipo di contestazione. E lui, da figliolo obbediente, oltre che apprendista criminale, ha fatto di meglio: è riuscito ad assicurarsi il sostegno incrollabile di amici veri e fidati. Il veto russo è un’arma assoluta; alcuni dignitari cristiani si sarebbero recati a Mosca per far pressione su Putin affinché non facesse mancare il suo appoggio a Bashar al Assad. Le armi fornite dall’Iran sono decisive. Ed è stato sempre l’Iran a chiedere ai capi degli Hezbollah libanesi di dare una mano al dittatore siriano. Il quotidiano Libération( 26 agosto) riporta quanto ha detto Mehdi Taeb, uno dei consiglieri della guida suprema Ali Khamenei: «La Siria è la trentacinquesima provincia, e una provincia strategica per noi: se il nemico dovesse attaccarci e cercare di prendere al tempo stesso il controllo della Siria e del Khuzestan, la priorità sarebbe quella di mantenere la Siria. Se perdessimo la Siria non saremmo in grado di tenere Teheran». Forte di questi appoggi, ben più affidabili e robusti di quelli dei ribelli, il regime di Assad ha potuto permettersi qualsiasi cosa: persino di gasare nel sonno una popolazione civile. Più di due anni fa Bashar al Assad aveva avvertito il mondo: se intervenite in Siria farò della regione un inferno. «Lancerò una sfera di fuoco che incendierà il Medio Oriente», ha dichiarato. Ne è capace, dato il suo cinismo e la sua ferocia, derivanti dalla barbarie che gli è stata inculcata fin dall’infanzia. Per mantenersi al potere non arretrerà davanti a nulla. È questo che gli occidentali dovrebbero comprendere. Quello che abbiamo davanti non è un capo di Stato moderno, cioè civilizzato, ma un capo-tribù per il quale il diritto è la forza, e l’assassinio l’unica risposta; e per di più confortato nella sua pratica criminale da Stati che fanno vergogna all’umanità. Mentre americani ed europei si chiedono se intervenire o meno, Bashar al Assad non perde tempo con problemi etici. Uccide, con qualunque mezzo. E in questa tragedia purtroppo è lui ad averla vinta. Ci troviamo di fronte a un mostro che ha ripudiato la legge, il diritto e la civiltà. È il padrone della giungla. E non c’è da piangere quando il re della giungla fa un massacro. È il suo ruolo, il suo mestiere, la sua ragion d’essere. Intanto gli Stati arabi stanno con le mani in mano e guardano da un’altra parte. L’Arabia Saudita aiuta fiaccamente i ribelli, mentre il Qatar conduce una politica oscura. Gli altri sono occupati a fare della primavera una stagione più clemente. Di fatto, è l’intero mondo arabo a trovarsi al centro di una tempesta in cui potenze come la Cina, la Russia, l’Iran e l’America si affrontano in una guerra non dichiarata, le cui vittime sono sempre le stesse: le popolazioni anonime e indifese: dilaniate, o semplicemente asfissiate nel sonno.

Il FOGLIO – Bret Stephens : ” Il bersaglio è Assad “


Bret Stephens

Se il presidente Obama dovesse decidere di ordinare uno strike militare contro la Siria, il suo obiettivo principale dovrebbe essere uccidere Bashar el Assad. E insieme a lui Maher, il fratello di Bashar e suo principale scagnozzo. E chiunque altro nella famiglia di Assad abbia pretese di potere politico. E tutti i simboli politici del potere della famiglia di Assad, comprese le residenze ufficiali e non. L’uso delle armi chimiche contro i propri cittadini comporta livelli di barbarie raggiunti nella storia recente solo da Saddam Hussein. Un mondo civilizzato non può tollerarlo. Deve dimostrare che la punizione per questo crimine sarà personalmente mirata e inevitabilmente fatale. Forse questo potrà sembrare ad alcuni lettori come una strategia troppo efferata. Ma non vedo come un presidente che ha impostato la sua campagna elettorale per il secondo mandato sull’eliminazione di Osama bin Laden – un colpo alla testa e uno al cuore – possa avere margini di dubbio su questo. Colpire direttamente il dittatore siriano e la sua famiglia è l’unica opzione militare che non sia in conflitto con l’unica linea rossa su cui Barack Obama è irremovibile: non rimanere impantanato in un lungo conflitto in Siria. Ed è un’opzione che ha la possibilità di portare ampi vantaggi strategici pur essendo inevitabilmente un’azione dal valore simbolico. Esaminiamo alcune delle alternative. Un’opzione è colpire i depositi di armi chimiche dell’esercito siriano, stimati intorno alle mille tonnellate. La scorsa settimana il Times of Israel ha scritto che “il regime [di Assad], vedendosi assediato, ha concentrato le sue vaste riserve di armi chimiche in appena due o tre luoghi… sotto il controllo dell’intelligence dell’aviazione siriana”. Se questo è vero, c’è la possibilità che una larga parte della scorta chimica di Assad possa essere spazzata via usando bombe neutralizzanti che dapprima distruggono i contenitori degli armamenti chimici con una pioggia di proiettili di metallo, poi inceneriscono gli agenti chimici con il fosforo bianco, evitando che si disperdano nell’aria. E’ difficile però che degli attacchi aerei possano distruggere tutti i depositi chimici del regime, che probabilmente saranno spostati in questi giorni davanti alla minaccia di un attacco, e che potrebbero sempre essere riforniti dagli amici di Bashar in Nord Corea e Iran. Più nel dettaglio, un attacco ai depositi di armi chimiche, per quanto giusto e appropriato, farebbe poco per colpire l’uomo che ha ordinato il loro utilizzo. Né danneggerebbe seriamente la capacità del regime di continuare la guerra contro il suo stesso popolo, anche se solo con mezzi convenzionali. Un’altra opzione potrebbe essere uno strike sui quartier generali, le basi aeree e i depositi di armi della Guardia repubblicana d’élite del regime, e in particolare sulla quarta divisione corazzata di Maher el Assad, che si ritiene responsabile dell’attacco della scorsa settimana. Ma qui il problema del dispendio di mezzi diventa molto maggiore, perché solo pochi carri armati, elicotteri o jet possono essere distrutti da un missile cruise (costo per unità: 1,5 milioni di dollari). Né è chiaro, moralmente parlando, perché i soldati che rispondono agli ordini della famiglia di Assad dovrebbero essere i primi davanti alle linee di fuoco americane. Nella primavera del 2005 sono stato imprigionato per un breve periodo da un’unità della Guardia repubblicana quando mi sono imbattuto in un loro accampamento sul confine libanese. I soldati erano poveri, sporchi e magri. Mi sono sentito in pena per loro, e lo sono ancora. Poi c’è l’opzione “Desert Fox” – l’imprecisa campagna di tre giorni di bombardamenti in Iraq nel dicembre del 1998, voluta da Bill Clinton in pieno impeachment. L’operazione colpì 97 obiettivi con l’intento di “deteriorare” le riserve irachene di armi di distruzione di massa e sancire una posizione politica. Ma non fece niente per danneggiare il regime di Saddam e anzi aumentò la simpatia internazionale nei suoi confronti. Riprendere l’esercizio inutile del “fare qualcosa purchessia” è quanto di peggio gli Stati Uniti potrebbero fare in Siria. Purtroppo, è quello che finiremo per fare. Così si arriva all’opzione di uccidere Assad. Lunedì John Kerry ha parlato con notevole passione dell’“oscenità morale” dell’utilizzo di armi chimiche, e della necessità di “mettere davanti alle proprie responsabilità chi usa le armi più atroci del mondo contro il popolo più vulnerabile del mondo”. Ben detto signor segretario di stato, soprattutto considerando che un tempo lei era il miglior amico di Assad a Washington. Ma ora queste parole devono portare a qualcosa per evitare di diventare parte di un’altra oscenità morale: la finora blanda indifferenza dell’occidente nei confronti delle sofferenze della Siria. Una condanna non può più essere sufficiente. Ricorda la reazione internazionale all’invasione dell’Abissinia da parte di Mussolini, descritta nel magazine Punch: “Non vogliamo che combatta / ma se poi dovessi farlo / scriveremo un memorandum congiunto / suggerendo lieve disapprovazione per il tuo comportamento”. Mussolini conquistò l’Abissinia – usando armi chimiche. Il mondo non può permettersi un ritorno agli anni Trenta, quando era data libertà di manovra a leader barbari da un occidente che aveva perso la propria volontà di dare una forma all’ordine globale. Sì, un Tomahawk diretto contro Assad potrebbe fallire, come hanno fallito i missili diretti contro Saddam. Ma c’è anche la possibilità che lo colpiscano e affrettino la fine della guerra civile. E c’è un valore sia morale sia deterrente nel mettere Bashar e Maher nella stessa lista che un tempo conteneva i nomi di Bin Laden e Anwar al Awlaki. Ci saranno altre occasioni per discutere l’angusta questione del futuro della Siria. Quello che è in gioco ora è il futuro della civiltà, e se questa parola ha ancora un qualche significato.

Il FOGLIO – Andrew Tabler : ” Il giorno dopo la vittoria di Assad. Ipotesi (disastrose) di una Siria condannata al regime “


Andrew Tabler

Probabilmente non sapremo mai se Bashar el Assad è riuscito a dormire dopo il terrificante attacco con armi chimiche che si presume abbia ordinato durante la guerra civile in corso nel suo paese. Ma il presidente della Siria probabilmente è già soddisfatto per il fatto che, nonostante le migliaia di siriani morti nei combattimenti, le cose sarebbero potute andare molto peggio per lui. Con i ribelli che perdono terreno contro le forze del regime e soccombono a sempre più ampi dissidi interni, sembra sempre più che Assad stia evitando di perdere la guerra – il che si configura, in questo contesto, come una vittoria a tutti gli effetti. Per i molti paesi, compresi gli Stati Uniti, che hanno basato le proprie strategie sulla speranza che alla fine Assad sarebbe stato costretto a lasciare il potere, la sua capacità di resistenza è probabilmente stata fonte di contrarietà. (Ma visti i loro interventi quanto meno indecisi nella guerra, il risultato non dovrebbe essere una sorpresa) Tuttavia, Washington e i suoi alleati devono fare i conti con la situazione amara in cui si trova la Siria in questo momento. Il regime che emerge dalla guerra civile sarà più oppressivo e più anarchico di quello brutale ma stabile che esisteva prima della guerra. Innanzitutto, è importante capire cosa vorrà dire la vittoria. Affinché Assad possa considerarsi vincitore di questo conflitto, le sue forze devono guadagnare il controllo sul 40 per cento del territorio siriano, concentrato nella parte occidentale del paese, dove vive il 60-70 per cento della popolazione. (Un obiettivo militare fondamentale sarà mettere in sicurezza l’autostrada M5, che connette in direzione nordsud Damasco con Homs, Hama e la contesa città di Aleppo) Allo stesso tempo, Assad avrà bisogno di ripulire le sacche di resistenza dietro alle linee principali del regime. (Questo è esattamente ciò che è già riuscito a fare a Qusayr e nell’area attorno a Homs, dando ai suoi uomini accesso indisturbato alla valle di Bekaa e alle aree del Libano controllate da Hezbollah) In questo modo Assad riuscirà a mantenere salda la presa su quel che resta del suo stato per il prossimo futuro – e a ottenere una posizione di vantaggio per qualsiasi negoziato con l’opposizione. Ovviamente, se Assad riuscisse a rimanere al potere, il suo livello di controllo sul paese non sarà mai quello che era prima della guerra. In parte perché l’estensione geografica del governo sarà ridimensionata: parte del paese (soprattutto nella zona nord-est e lungo il fiume Eufrate) rimarrà sotto il controllo dell’opposizione siriana – comprese organizzazioni terroristiche – anche se rinunceranno all’obiettivo immediato di abbattere il regime di Assad. Anche nelle aree dove Assad rimarrà al potere, la sua autorità sarà notevolmente ridotta. Ha intrapreso una guerra contro il proprio paese, facendo uso di missili Scud e di armi chimiche contro la popolazione civile. Queste tattiche possono averlo aiutato a rimanere al potere, ma gli costeranno anche ogni brandello di legittimità popolare. In cambio, Assad farà sempre più uso della forza bruta per dimostrare la propria autorità ai siriani. Il suo regno di terrore nel dopoguerra avrà come obiettivo probabilmente la maggioranza sunnita della popolazione che ha animato la rivolta contro di lui. Le aree un tempo “liberate” della Siria saranno quelle che dovranno avere più paura. Se il regime fa uno sforzo per recuperare queste aree, anche temporaneamente, è facile immaginare migliaia di sunniti arrestati e portati nell’arcipelago siriano di carceri e camere di tortura. E questo probabilmente provocherà una massa di rifugiati che fuggono per salvarsi nelle altre aree controllate dall’opposizione in Siria o nei paesi vicini. Qualsiasi campagna di pulizia settaria rimodellerebbe la regione secondo nuove modalità. Per la repressione Assad farebbe affidamento sugli shabiha, le milizie alawite supportate da Hezbollah e dalla Guardia rivoluzionaria iraniana; nel corso della guerra, queste milizie si sono dimostrare più affidabili delle Forze di sicurezza tradizionali siriane negli assedi alle roccaforti dell’opposizione. (Gli shabiha sono già stati usati per sgomberare – e, secondo l’opposizione, massacrare – i siriani sunniti a Homs e nella vicina valle di Orontes) In altre parole, la Siria sarebbe legata a un’alleanza più profonda con l’Iran ed Hezbollah. In risposta, i paesi sunniti nella regione tenteranno probabilmente di sostenere il proseguimento di una rivolta sunnita – anche se questo volesse dire fare affidamento esclusivamente sugli jihadisti e sulla loro agenda politica. Il risultato: gli iraniani e Hezbollah rimarranno in Siria indefinitamente, istituzionalizzando quello che era da principio una collaborazione limitata. E la rivolta sunnita, supportata dall’esterno, impantanata in uno stallo con Assad, potrebbe iniziare a focalizzarsi sul terrorismo internazionale. E’ difficile che l’opposizione laica in Siria trovi spazio in questa situazione di caos; quelli che riusciranno a sfuggire alla tortura o alla morte per mano del regime di Assad cercheranno di formare una propria enclave o di unirsi alla massa di rifugiati verso l’esilio. C’è anche la questione di come Assad tenterà di ricostituire la devastata economia siriana. Secondo uno studio del Syrian center for policy research, le perdite totali della guerra sono stimate 85 miliardi di dollari, 40 miliardi solo per il primo quarto di quest’anno. Il regime siriano ha già ampiamente bruciato la riserva stimata di 17 miliardi di valuta forte che aveva all’inizio della rivolta, per compensare le sanzioni combinate di Stati Uniti, Unione europea e Lega araba sulla produzione di petrolio siriano – misure che difficilmente saranno ritirate se Assad resta al potere. Per rimanere a galla, si ritiene che Damasco abbia ricevuto 500 milioni al mese e linee di credito da Teheran per finanziare importazioni di cibo e di petrolio. Questa dipendenza continuerà senza dubbio a crescere negli anni a venire. La Banca centrale della Siria, pare con l’aiuto della Russia, ha anche fatto ricorso alla stampa di valuta, portando il tasso di inflazione mensile al 35 per cento. Una povertà estrema – perfetto terreno di coltura per gli estremisti – continuerà senza sosta. Per questo ogni previsione che una vittoria di Assad porterà alla stabilità dovrebbe essere bilanciata dalla consapevolezza che sarà completamente dipendente da altri paesi per le politiche di sicurezza e le risorse finanziarie. E questa dipendenza produrrà moltissima instabilità. Il ricostituito regime di Assad sarà particolarmente riconoscente a Teheran, cosa che aumenterà drammaticamente l’influenza dell’Iran sulla regione e renderà sempre più probabile che i territori libanese e siriano saranno usati per mettere in difficoltà Israele e gli altri alleati sunniti dell’America. Nel frattempo, le zone senza governo della Siria diventeranno il paradiso dei gruppi estremisti sunniti e curdi, simili alle zone fuori dalla legge della Somalia, dove opera il gruppo terrorista di al Shabab. Ancora peggio: questo paradiso sarà in zone adiacenti ai confini di Israele e si aggiungerà alla sempre crescente lista di problemi di Gerusalemme. E se Assad riuscirà a mantenere la propria autorità in gran parte della Siria, Israele potrebbe diventare un obiettivo ancora più attraente per questi gruppi estremisti e i loro sponsor. Lo scenario più realistico, quindi, per un dopoguerra guidato da Assad è uno stato in cui molteplici agenti del terrore organizzato – lo stesso Assad, il regime iraniano, le propaggini sunnite di al Qaida – cercheranno contemporaneamente l’uno la fine dell’altro. Questo sarà probabilmente fonte di instabilità negli anni a venire, oltre che luogo di origine di crimini brutali contro l’umanità. E’ per questo che è nell’interesse dell’occidente evitare la sopravvivenza di Assad ordinando attacchi aerei su obiettivi del regime, facendo pressioni su Mosca e su Teheran per porre fine ai loro aiuti e sostenendo le componenti moderate dell’opposizione. Altrimenti, l’unico aspetto positivo del futuro della Siria sarà che finalmente sarà smentito l’adagio secondo cui “E’ meglio il diavolo che conosci di quello che non conosci”.

CORRIERE della SERA – Guido Olimpio : ” Così Damasco muove i fili delle sue «pedine» all’estero “


Guido Olimpio

WASHINGTON — Quello del viceministro siriano Faisal Al Miqdad è un monito che può nascondere una profezia. O molto di più. Partiamo dal monito. Non sarebbe una sorpresa se militanti qaedisti, reduci dal conflitto siriano, si preparassero a colpire l’Europa. Alcuni sono già stati fermati. C’è una grande attenzione (e paura) nel nord del Continente, da dove sono partiti molti volontari. Alcuni, chiusa l’esperienza sul fronte bellico, sono rientrati con intenzioni poco buone. Nella loro visione l’Occidente resta un nemico, un’ostilità resa ancora più aspra dall’accusa di aver fatto ben poco — almeno fino ad oggi — per fermare il massacro in Siria. Proprio la paura di favorire le componenti più estreme, solide e ramificate in un’area estesa dall’Iraq all’Algeria, ha indotto gli Stati Uniti a restare guardinghi nei confronti della resistenza. Dunque ci sta il rischio attentati, magari senza le armi chimiche, difficili da maneggiare. Passiamo alla profezia. I servizi segreti siriani sono i maestri della manipolazione. Tirano molti fili, dispongono di gruppi e sotto-fazioni che agiscono a comando, si mimetizzano e riappaiono quando fa comodo. Nulla di più facile che ispirare una di queste cellule per compiere un attentato a Londra o Parigi e poi rivendicarlo con una sigla dai richiami religiosi oppure che ricorda il marchio di Al Qaeda. Uno scenario perfetto per poi rinfacciare agli occidentali: «Cosa vi avevamo detto? Non ci avete ascoltati». E magari possono aggiungere un memo: vi siete dimenticati cosa è accaduto all’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi, soffocato dal rogo del consolato? In passato gli uomini di Bashar Assad, in particolare quelli dell’intelligence dell’aviazione, hanno mosso pedine dal Medio Oriente all’Europa. Non per svolgere missioni spionistiche, bensì per creare network di appoggio. Pochi uomini che sono diventati riferimenti per nuclei terroristici di ispirazione diversa. Trafficano in armi, hanno attività di copertura legittime e sono ben inseriti. In caso di necessità si trasformano in facilitatori di attentati. Pochi giorni fa parlavamo del Fronte guidato da Ahmed Jibril, uno che è abituato all’intrigo e che si è esposto annunciando ritorsioni. Non è il solo. Questi mesi di violenza diffusa hanno fatto dimenticare in fretta gli attacchi che hanno sconvolto la Turchia. Alcuni dalla matrice netta, come l’azione suicida rivendicata dagli estremisti di sinistra del Dhpk-C contro l’ambasciata americana. Terroristi con un’agenda locale ma pronti a dare una mano a chi li ha finanziati da Damasco. Altri indecifrabili con le piste qaedista e dei filo-Assad confuse in una nebulosa dove gli agenti di Damasco si trovano a loro agio trovando complicità nei colleghi iraniani. Qualsiasi Stato che offrirà supporto all’America è a rischio. E qualsiasi zona dove è possibile innescare reazioni a catena — Giordania, Libano, Israele — non può sentirsi al sicuro.

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