Pubblicato da blogdibarbara

Novembre 20, 2014
Quello che segue è il testo della conferenza da me tenuta a Udine, su invito dell’associazione amicizia Italia-Israele e patrocinata dall’Università degli Studi di Udine. La conferenza, su mia richiesta, è stata preceduta da un minuto di silenzio in onore degli ebrei vittime della mattanza messa in atto da due terroristi arabi israeliani nella sinagoga HarNof a Gerusalemme OVEST.

Il termine “apartheid”, da qualche tempo a questa parte, è uno dei mantra più gettonati quando si parla di Israele e, come tutti i mantra, succede piuttosto spesso che venga usato senza sapere esattamente che cosa significhi. È dunque per cercare di fare un po’ di chiarezza che ci troviamo qui oggi.

La parola, con la relativa politica, nasce in Sudafrica dove i bianchi, che costituiscono il 20% della popolazione, impongono al restante 80% di popolazione nera e mista un regime di totale separazione – questo è il significato del termine in lingua afrikaans. Tale politica, già almeno parzialmente in atto, viene codificata e istituzionalizzata nel 1948. Non intendo ripercorrere ora tutta la storia del Sudafrica: mi limiterò a ricordare che questa terra fu colonizzata a partire dal XVII secolo da varie popolazioni europee, fra cui predominavano gli olandesi (i boeri, ossia contadini, in lingua olandese) e gli inglesi. E vediamo in che cosa, esattamente, consisteva questa politica.

– Proibizione dei matrimoni interrazziali
– Proibizione di rapporti sessuali con una persona di razza diversa, che diventano un reato penalmente perseguibile
– Obbligo per tutti i cittadini di registrarsi come bianchi o neri
– Divieto ai non bianchi di entrare in alcune aree urbane
– Divieto di utilizzare le strutture pubbliche, come fontane, sale d’attesa, marciapiedi, ecc. Anche le cabine telefoniche erano separate, non sia mai che un bianco avesse a contaminarsi toccando una cornetta toccata prima da un negro
– Severe limitazioni all’istruzione
– Legge che sanzionava la discriminazione razziale in ambito lavorativo (per lo stesso lavoro un bianco poteva guadagnare anche 14 volte più di un nero)
– Istituzione dei bantustan – veri e propri ghetti – per la popolazione nera nominalmente indipendente ma sottoposta al controllo del governo sudafricano per mezzo di governi fantoccio
– Privazione della cittadinanza sudafricana e dei diritti a essa connessi per gli abitanti dei bantustan
– I neri che vivevano nei centri urbani erano costretti ad abitare in quartieri periferici, spesso formati da sole baracche, dai quali potevano uscire per lavorare solo con speciali lasciapassare
– I neri non hanno diritto di sciopero
– Pur essendo l’80% della popolazione, non possono possedere più del 7,3% del totale delle terre

Nel 1950 entra in vigore il Population Registration act, con il quale la registrazione della popolazione richiede che i sudafricani vengano classificati in una delle tre categorie: bianco, nero (africani), o di colore (categoria che comprendeva le razze miste e i sottogruppi di origine indiana e asiatica). Vi era anche un apposito Dipartimento responsabile della classificazione dei cittadini che puniva severamente il mancato rispetto delle leggi razziali.
Nel 1956 la politica di apartheid viene estesa anche ai cittadini asiatici.
Negli anni sessanta tre milioni e mezzo di neri, etichettati come Bantu, furono sfrattati con la forza dalle loro case e reinseriti nei bantustan. I neri erano privati di ogni diritto civile e politico; potevano frequentare solo l’istituzione di scuole agricole e commerciali speciali; i negozi dovevano servire tutti i clienti bianchi prima dei neri; dovevano avere speciali passaporti interni per muoversi nelle zone bianche, pena l’arresto o peggio.
Nel 1975 un ulteriore giro di vite: si decide di far rispettare una legge a lungo dimenticata: ogni norma doveva essere scritta esclusivamente in lingua afrikaans; la legge viene estesa anche alle scuole in cui sia insegnanti che alunni devono tenere le lezioni in tale lingua. Chi si oppone viene espulso dalle scuole.

Queste leggi, come possiamo vedere, differiscono molto poco dalle leggi di Norimberga in vigore nella Germania nazista. Aggiungo qualche annotazione di carattere sociale. Negli anni Ottanta la spesa totale pro-capite per l’educazione è di 780 $ per i bianchi e di 110 $ per i neri. L’87% del territorio (con oro e diamanti) è assegnato alla minoranza bianca. C’è un medico ogni 330 bianchi e uno ogni 91.000 neri (nel bantustan KwaZulu ce n’è uno ogni 150.000 ab.: è la proporzione più bassa di tutto il Terzo mondo). Un medico bianco non può soccorrere un nero. I bambini neri in carcere sono sempre privi di assistenza legale e i genitori non sanno dove vengono rinchiusi né di cosa sono accusati. Le condanne per loro variano da un minimo di 6 a un massimo di 9 anni di reclusione. Nei ghetti le scuole possono anche avere classi di 70 ragazzi. Nessuno può parlare agli studenti, nell’ambito della scuola, di argomenti che esulano dal programma ufficiale, alla cui base vi è il Manifesto dell’educazione nazionale cristiana, che afferma: “il compito del sudafricano bianco nei confronti dell’indigeno è quello di cristianizzarlo e aiutarlo a progredire culturalmente. L’istruzione degli indigeni deve essere basata sui principi di custodia, non-uguaglianza e segregazione. Lo scopo di questa educazione è quello di far capire qual è lo stile di vita dell’uomo bianco, specialmente quello della nazione boera”. A scuola non ci si può andare se non si ha un nome “cristiano”, che i bianchi sappiano pronunciare. Negli anni Settanta la media delle condanne a morte è stata di 79 all’anno; negli anni Ottanta, 119. A queste vanno aggiunte le numerosissime morti in carcere fra le decine di migliaia di detenuti (11.000 bambini e ragazzi alla fine degli anni Ottanta), e tutti morivano o di infarto, o per avere battuto la testa dopo essere scivolati su un pezzo di sapone mentre facevano la doccia, come documentato da Donald Woods nel suo libro dedicato a Stephen Biko, assassinato in carcere il 12 settembre 1977, all’età di trent’anni.

A conclusione di questo rapido quadro dell’apartheid in Sudafrica voglio aggiungere un ricordo personale, ossia un servizio pubblicato all’epoca su un giornale italiano, L’Europeo, se ricordo bene: vi si mostravano, tra l’altro, i minatori che a fine turno, prima di lasciare le miniere, venivano fatti spogliare e minuziosamente perquisiti, con tanto di ispezione anale, per assicurarsi che non trafugassero qualche diamante. Parecchi lettori, in seguito a questo servizio, hanno vigorosamente protestato per via della foto, qualificata come oscena, dei minatori nudi: non l’umiliazione imposta a questi uomini, oltre al lavoro massacrante e tutto il resto, scandalizzava queste brave persone, bensì la vista di un paio di peni.

E passiamo a Israele, secondo termine del confronto, di cui vorrei inquadrare brevemente la situazione statuale, che forse per qualcuno potrebbe non essere del tutto chiara e nota.
Lo stato di Israele occupa un pezzetto di terra (per oltre la metà desertico) che è il 60% del 22%, ossia circa il 13% della terra che era stata promessa nel 1917 con la Dichiarazione Balfour, impegno ripreso dalla Società delle Nazioni alla Conferenza di Sanremo il 24 aprile 1920, confermato dal Consiglio della Lega delle Nazioni il 24 luglio 1922 e diventato operativo nel settembre 1923. Qualcuno chiede: con quale diritto? Risposta: con quello che da che mondo è mondo compete a chi vince le guerre (tranne quando il vincitore si chiama “Israele” e lo sconfitto “Paese arabo a scelta” o “palestinesi”): l’impero ottomano e l’impero asburgico, dopo avere voluto la guerra e non essere stati in grado di vincerla, si sono dissolti, e le potenze vincitrici se ne sono spartite le spoglie e ne hanno fatto ciò che hanno voluto. Dite che è ingiusto? Può darsi, però in questo caso, per coerenza bisognerà contestare la legittimità dell’esistenza o dei confini di tutti o quasi gli stati del pianeta, a cominciare dalla Giordania, inventata dal nulla e fabbricata a tavolino per far piacere a un amico degli inglesi (estraneo al territorio), su terra rubata agli ebrei (il 78% di quella assegnata loro, per la precisione) – e diventata istantaneamente judenrein, perché tutti gli ebrei che vi risiedevano ne sono stati immediatamente cacciati.
Qualcuno dice: sì, ma quella era terra araba, ci stavano gli arabi. Momento. Lo sapete perché si chiamano arabi? Esatto: perché vengono dall’Arabia. Di tutto ciò che oggi chiamiamo il mondo arabo, gli stati arabi, le popolazioni arabe, ogni centimetro fuori della penisola araba è stato aggredito, invaso, occupato, arabizzato e islamizzato a suon di massacri, deportazioni, stupri etnici e conversioni forzate, con annientamento delle culture e quasi sempre cancellazione delle lingue originarie.
Qualcuno obietta: sì, ma in ogni caso quando hanno cominciato ad arrivare i primi pionieri ebrei lì c’erano gli arabi, e loro li hanno cacciati. Falso: è vero l’esatto contrario. Nei racconti di viaggio e nelle foto dell’epoca pre-sionistica troviamo paesaggi desolati e semidesertici, i dati dei documenti ottomani danno una densità abitativa di pochissime unità per chilometro quadrato, e nel 1939, Winston Churchill osservò che “lungi dall’essere perseguitati, gli arabi si sono ammassati nel paese e si sono moltiplicati… ” Già. La leggenda narra che sono arrivati gli ebrei e hanno cacciato gli arabi, ma la Storia e i dati demografici dicono l’esatto contrario: dopo che sono arrivati i pionieri ebrei, grazie alle condizioni di vita che questi ultimi avevano cominciato a creare, sono arrivati gli arabi dagli stati circostanti, come dimostra questa tabella.
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Immagino poi che vi sarà capitato di vedere quella serie di quattro cartine che mostrano il progressivo “furto di terra” da parte di Israele ai danni dei palestinesi cominciando, nella prima, con alcuni puntini bianchi in un mare verde che rappresentano le terre di proprietà ebraica, e il bianco che, nelle carte successive, si estende fino a eliminare il verde.
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Ebbene, quelle cartine sono delle colossali patacche: i puntini bianchi sono sì proprietà ebraica privata (interamente acquistata e pagata, per lo più da latifondisti ottomani residenti all’estero), ma il resto non è, come si vorrebbe far credere, proprietà privata palestinese, bensì, in grandissima parte, demanio: prima ottomano, poi del mandato britannico, e infine dello stato di Israele. Per la precisione, in base ai dati forniti dal governo britannico, nel 1946 l’8,6% del territorio corrispondente all’attuale stato di Israele era di proprietà di ebrei, il 3,3% di arabi rimasti nel Paese e il 16,5% di arabi che lo hanno successivamente abbandonato. Il terreno demaniale copriva quindi oltre il 70% del territorio. Per concludere il discorso sulla terra, può essere utile dare un’occhiata alle variazioni occorse nelle varie epoche.
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Quanto al “dramma dei profughi palestinesi”, vale forse la pena di rileggere un paio di notizie riportate all’epoca.
Il quotidiano del Cairo AKHBAR EL-YOM, il 12 Ottobre 1963 ricordava: “Venne il 15 Maggio 1948… quello stesso giorno il Mùfti di Gerusalemme fece appello agli Arabi di Palestina affinché abbandonassero il Paese, in quanto gli eserciti Arabi stavano per entrare al loro posto…”
Il 6 Settembre 1948, il “Beirut Telegraph” intervistava Emile Ghoury, segretario del Supremo Comitato Arabo: “Se esistono questi profughi, è conseguenza diretta dell’azione degli Stati Arabi contro la partizione, e contro lo stato Ebraico”.
Il 19 Febbraio 1949, il quotidiano Giordano FALASTIN scriveva. “Gli Stati Arabi che avevano incoraggiato gli Arabi di Palestina a lasciare le proprie case temporaneamente per essere fuori tiro degli eserciti d’invasione Arabi, non hanno mantenuta la promessa di aiutare questi profughi…”.
Interessante, per inciso, notare che fino al 1963 i giornali arabi non parlano di palestinesi, bensì di “Arabi di Palestina”: fino a quel momento, infatti, il nome di palestinesi designava unicamente gli ebrei: il Times of Palestine era il giornale ebraico, la Palestine Philharmonic Orchestra fondata nel 1929 era l’orchestra ebraica, questa era la bandiera della Palestina
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e magari ricordiamo anche che sui muri di mezza Europa, quegli stessi muri su cui oggi leggiamo “Ebrei, fuori dalla Palestina!”, gli antisemiti dell’epoca scrivevano “Ebrei fuori dai piedi! Tornatevene in Palestina!” L’espressione “popolo palestinese” nasce con l’OLP, ossia l’organizzazione per la liberazione della Palestina, fondata nel 1964 quando, sarà bene ricordarlo, NON c’erano territori occupati da Israele: l’unico territorio occupato da Israele era lo stato di Israele.
E non dimentichiamo, a proposito di profughi, il milione circa di ebrei che, in quello stesso periodo, furono costretti a lasciare i Paesi arabi in cui risiedevano da secoli, e in alcuni casi addirittura da millenni, abbandonandovi case, terreni, negozi, fabbriche e ogni altra proprietà, senza che nessuno abbia mai pensato a pretendere per loro il benché minimo risarcimento.
Quindi, ricapitolando, lo stato di Israele si trova in quel pezzetto di terra in cui scavando si trovano tombe ebraiche antiche di migliaia di anni, in cui nel corso dei due millenni seguiti alla deportazione operata dai romani non è mai venuta meno una presenza ebraica, i cui terreni sono stati acquistati e pagati, la cui legittimità è stata sancita da un organismo internazionale, la cui integrità è stata difesa in molte guerre subite, al costo di molti morti: quanti altri stati al mondo possono vantare una tale quantità di fattori a sostegno del proprio diritto a esistere?
E passiamo alla famosa apartheid. In Israele la legge sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini. Tutti i cittadini hanno libero accesso all’università (alla Hebrew University gli studenti arabi sono circa il 10% del totale, a Haifa il 20%), diritto a essere curati negli ospedali, (dove operano medici e infermieri arabi, sia cristiani che musulmani) perfino quando si tratta di terroristi,
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diritto ad accedere alla magistratura (ricordo che è stato un giudice arabo a condannare alla prigione per molestie sessuali il presidente dello stato – il quale presidente non si è messo a strillare alla persecuzione o al complotto: è andato in galera e basta), al parlamento, dove più di qualcuno usa il proprio ruolo per invocare la distruzione di Israele, e anche alle più alte cariche dello stato.
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Troviamo arabi fianco a fianco con gli israeliani ebrei nei negozi, nelle spiagge, nei posti di lavoro, nei luoghi di divertimento, e anche un paio di miss Israele: non avete bisogno di credermi sulla parola, potete andare a verificare coi vostri occhi. Un discorso a parte va fatto per l’esercito: gli arabi, per ragioni facilmente comprensibili, non sono obbligati a prestare servizio militare, però possono farlo se lo desiderano, e alcuni raggiungono anche gradi elevati, donne comprese, e ultimamente il numero di arabi che chiedono di entrare nell’esercito o nella polizia sembra in deciso aumento. Niente apartheid, dunque, da quelle parti? Beh, no: di apartheid in realtà ce n’è: dall’altra parte della barricata: gli israeliani non hanno diritto di entrare nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese,
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sono passibili di morte se vendono proprietà agli ebrei,
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e in un eventuale futuro stato palestinese non sarà consentita la residenza a nessun israeliano.
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In pratica abbiamo quel fenomeno che in psicanalisi si chiama proiezione: tutto ciò che una parte fa e desidera, viene sistematicamente imputato all’altra.
Ancora due parole, prima di concludere il discorso sull’apartheid, su quello che viene universalmente chiamato “il muro dell’odio”, “il muro della vergogna”, “il muro dell’apartheid”. Una precisazione, innanzitutto: la barriera di difesa è muro per circa il 10% del suo tracciato, ossia nei tratti che costeggiano le strade su cui i cecchini palestinesi facevano il tiro al bersaglio contro le auto in transito; tutto il resto è barriera metallica dotata di sensori elettronici:
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NON una barriera elettrificata, come qualcuno ama dire, forse perché così assomiglia di più al filo spinato elettrificato di Auschwitz, ma sensori elettronici che segnalano eventuali tentativi di intrusione. La seconda cosa è un’immagine, che non credo necessiti commenti.
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Un altro mantra molto gettonato è quello dell’acqua: gli israeliani rubano l’acqua ai palestinesi appropriandosi delle fonti, e per giunta interrano i pozzi. Lo leggiamo in continuazione, lo sentiamo in continuazione, fa parte di quelle cose che “tutti sanno”: lo sanno talmente bene che non si sente neppure il bisogno di andare a verificare. E noi invece ci andremo, a verificare, partendo da alcune recenti accuse “firmate”, come per esempio l’interrogazione parlamentare grillina: «A seguito delle politiche israeliane di gestione dell’acqua i palestinesi che vivono in Cisgiordania possono disporre di meno di 60 litri al giorno (rispetto ai 100 litri minimi secondo gli standard internazionali), mentre i coloni dispongono di almeno 300». Poi è stata la volta di Martin Schultz, Presidente del Parlamento Europeo che alla Knesset ha detto: “Perché un Israeliano può usare 70 litri d’acqua al giorno e un Palestinese solo 17?” [interessante, noto io, la concordanza dei dati, evidentemente accertati con rigorosissimi metodi scientifici]
Nel 2011 l’agenzia Ma’an riportava: “Il capo della Palestinian Water Authority ha condannato la distruzione di Israele di tre pozzi d’acqua vicino a Nablus, invitando la comunità internazionale ad intervenire. Shaddad Atilli ha detto che i pozzi di Beit Hassan sono stati usati per irrigare 2.000 ettari di terra.” Non ottenne la stessa copertura mediatica delle accuse una lettera del 2012 da parte del capo delle infrastrutture per COGAT, che cercava di spiegare la verità. “Pochi giorni fa il dottor Atilli ha inviato una lettera, denunciando la distruzione di Israele di un certo numero di pozzi illegali situati in Beit Hassan, usando questo per spiegare la sua scelta di recedere dal programma di desalinizzazione. È un peccato che il dottor Atilli abbia scelto di intraprendere tale azione, soprattutto, in quanto è solo il popolo palestinese che soffrirà a causa della sua decisione. In risposta alla sua accusa, penso che sia essenziale informarvi di una serie di punti cruciali che il dottor Atilli ha omesso e che mettono in evidenza non solo le difficoltà che dobbiamo affrontare per quanto riguarda la cooperazione nel settore idrico, ma anche nell’esporre le consuete, noiose tattiche di pubbliche relazioni palestinesi, che siamo costretti ad affrontare in maniera regolare. La decisione di chiudere i tre pozzi illegali a Beit Hassan è stata concordata da entrambe le parti, Israeliani e Palestinesi, presso il Comitato Congiunto per l’Acqua nell’incontro tenutosi il 2.12.2007. Diversi pro-memoria di questa decisione sono stati inviati al Palestinian Water Authority che ha ribadito l’intenzione di proseguire nella decisione sopra indicata e ha anche promesso di presentare una relazione sulla sua attuazione. In diverse occasioni la parte palestinese ha sottolineato il suo impegno per combattere il fenomeno delle trivellazioni illegali , affermando che è nel migliore interesse di entrambe le parti. Nel marzo del 2011, quattro anni dopo la decisione iniziale congiunta di chiudere i pozzi , abbiamo chiesto ancora una volta che la decisione del Comitato Congiunto per l’Acqua fosse attuata. La decisione di chiudere i pozzi in Beit Hassan non è una questione politica – è sopravvivenza – poiché volta a proteggere la nostra risorsa naturale vitale collettiva più grande e più importante . Un esempio inquietante dei rischi connessi alle trivellazioni non monitorate è la distruzione della falda acquifera di Gaza , conseguenza della grande quantità di perforazioni non autorizzate . Questo non può e non deve essere ripetuto con la falda acquifera montana, ed è un mistero per noi il perché la parte Palestinese non abbia a cuore la propria sopravvivenza. È anche importante sottolineare che le perforazioni non autorizzate sono in contraddizione con l’articolo 40 dell’allegato III dell’accordo interinale, che Israele attua pienamente, superando anche i suoi obblighi derivanti dal contratto, ad esempio fornendo ai Palestinesi quantità di acqua ben oltre l’obbligo.”
Lt.Col Grisha Yakubovich, Responsabile della Branch Infrastructure COGAT, Ministero della Difesa
In un’altra accusa Atilli afferma che “Israele assegna solo il 10% delle fonti idriche comuni ai palestinesi”. La verità è che la quota di acqua per la Cisgiordania è stata concordata negli accordi di Oslo: il 33% delle acque nelle falde acquifere sotto la West Bank è assegnato ai Palestinesi. Nel 1993 i Palestinesi avrebbero potuto pompare 117 milioni di metri cubi e Israele ne avrebbe forniti ancora 31 milioni. Nel 2007 sono stati assegnati alla PA, 200 milioni di metri cubi, 51,8 milioni dei quali forniti da Israele. Tuttavia, di questi 200 milioni di metri cubi, solo 180 milioni sono stati effettivamente utilizzati.
La ragione principale di ciò è che la Palestinian Water Authority non ha attuato progetti per la falda acquifera orientale che avrebbe risolto gran parte della crisi idrica palestinese. Più della metà dei pozzi autorizzati per lo sfruttamento della falda orientale non sono ancora stati perforati. I permessi sono stati rilasciati nel 2000. In una lettera scritta il 4 aprile 2001, l’amministrazione civile ha invitato la Palestinian Water Authority ad eseguire questi progetti. Una lettera dell’8 Giugno 2009 ha ribadito la richiesta. Atilli ha anche mentito sul consumo idrico palestinese. Nell’articolo al JPost ha affermato che i palestinesi sono “costretti a una media di soli 60 litri.” Tuttavia, nel 2009 proprio la Palestinian Water Authority ha pubblicato un rapporto che menzionava una fornitura media di 110 litri pro capite al giorno.
Un’altra ragione per la perdita di acqua è la scarsa manutenzione delle infrastrutture idriche palestinesi. Un incredibile 33% della fornitura d’acqua dolce si perde a causa di perdite, furti e scarsa manutenzione. Altri documenti hanno fornito prove solide che la chiusura di 250 pozzi illegali è stata concordata nelle riunioni del Comitato Congiunto per l’acqua. Ad esempio, il verbale della riunione del 13 novembre 2007 mostra una decisione consensuale di distruggere ‘forature e connessioni illegali.’ Tuttavia, Atilli ha agito come se non avesse mai partecipato a queste riunioni o cofirmato le decisioni comuni. Sono centinaia, i punti di deviazione dell’acqua abusivi, utilizzati dai Palestinesi.
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I tubi che i Palestinesi collegano ai condotti principali dell’acqua alimentano vasche di irrigazione, serbatoi improvvisati di acqua rubata. I Palestinesi usano questi serbatoi per le esigenze agricole. Episodi di questo genere sono stati segnalati nelle condutture Shiloh-Migdalim così come in altri settori. Ogni anno 3,5 milioni di metri cubi di acqua in Giudea e Samaria vengono rubati in questo modo. Un nuovo studio condotto dal professor Haim Gvirtzman, che dirige l’Hebrew University’s Hydrology Studies Program e la cui relazione è stata pubblicata dal Centro Begin-Sadat per gli Studi Strategici presso la Bar-Ilan University, rivela che Israele perde circa 10 milioni di metri cubi di acqua all’anno in questo modo. In pieno giorno, i palestinesi trapanano illegalmente senza ricevere le necessarie autorizzazioni da parte della commissione dell’Autorità israelo-palestinese che gestisce le questioni idriche congiuntamente. Ramallah ignora volontariamente questi incidenti o tacitamente li approva. Il prof. Gvirtzman, che ora lavora per l’Autorità delle Acque, rivela che “il comitato congiunto israelo-palestinese ha concesso quasi 80 permessi di trivellazione ai Palestinesi, la maggior parte dei quali per attingere l’acqua dalla falda orientale. Eppure, i Palestinesi utilizzano meno della metà di questi permessi”, preferendo invece perforare senza permesso nella falda acquifera di montagna, soprattutto nel settore settentrionale nella zona di Jenin, e nel quartiere occidentale circostante Qalqilyah e Tul Karem. “Come risultato, Israele è stato costretto a ridurre la portata di acqua alle pompe di questa falda, al fine di evitarne la salinizzazione.” Gvirtzman ha anche scoperto che dei 52 milioni di metri cubi di acque reflue che i Palestinesi producono ogni anno, solo due milioni sono trattati nell’impianto di depurazione che hanno costruito in Al-Bireh. “Il resto del liquame scorre negli affluenti e inquina l’ambiente e il terreno”, scrive. È un allarme conosciuto da tempo e finora ignorato dall’Autorità palestinese. Diciassette milioni di metri cubi di acque reflue attraversano la linea verde. La maggior parte di questa acqua viene assorbita e trattata in Israele, ma solo dopo che ha danneggiato l’ambiente e inquinato le falde acquifere. Questo stato di cose si trova in totale contraddizione con gli accordi che i Palestinesi hanno firmato con Israele. Ci sono piani (rimasti sulla carta) per la costruzione di decine di impianti di depurazione in città come Nablus, Hebron, Betlemme e Tul Karem. Tutti questi progetti sono sovvenzionati dai paesi donatori, ma ora i Palestinesi hanno deciso che non vogliono costruire nelle aree A e B, ma nell’Area C (che è sotto il pieno controllo militare e amministrativo israeliano).
A conclusione di questo lungo discorso sull’acqua, vediamo ora alcune immagini, tutte rigorosamente di fonte palestinese, che illustreranno adeguatamente la drammatica carenza di acqua di cui soffrono i palestinesi – qui, dove ho trovato anche le informazioni qui riportate).

A questo punto è stata letta questa mia riflessione di qualche anno fa.

E per concludere, visto che stiamo andando per mantra, ne vorrei prendere in considerazione ancora uno: il genocidio palestinese, accompagnato dall’altro mantra tanto amato dai demonizzatori di Israele ossia che “i numeri parlano da soli”. E per farlo riporterò un brano di un mio articolo di circa sei anni fa in cui ho fatto, appunto, parlare i numeri (uno dei quali, proprio perché sono passati sei anni, è un po’ cambiato, ma non ho ritenuto necessario aggiornarlo). Gli armeni della Turchia hanno subito un genocidio: prima erano tre milioni, dopo breve tempo erano uno e mezzo. Gli ebrei d’Europa hanno subito un genocidio: prima erano 12 milioni, pochi anni dopo erano diventati 6. I cambogiani hanno subito un genocidio: prima erano quattro milioni e mezzo, dopo erano tre. I tutsi hanno subito un genocidio: erano un milione e mezzo e in brevissimo tempo si sono ridotti a mezzo milione. I palestinesi da sessant’anni stanno subendo un genocidio: nel 1947 erano un milione e duecentomila, oggi, dopo sessant’anni di ininterrotto genocidio, sono, a quanto pare, un po’ più di dieci milioni: due e mezzo in Cisgiordania, uno e mezzo a Gaza, uno e tre in Israele, e circa cinque milioni di cosiddetti profughi. Qualcuno, un giorno, ce la dovrà spiegare questa cosa.

Barbara Mella

 

One Response to C’È APARTHEID IN ISRAELE?

  1. Sergio ha detto:

    Bellissima analisi, dovrebbero leggerla i ministri degli esteri di quel fantasma che si chiama Europa.

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