Evidentemente al mondo non importa la sorte dei palestinesi, a meno che non la si possa usare contro Israele

Di Elliott Abrams

Si consideri il seguente scenario. Viene chiuso il principale punto di passaggio verso la striscia di Gaza. Migliaia di abitanti di Gaza restano bloccati all’esterno senza poter tornare a casa. Dall’altra parte, un migliaio di persone che necessitano di cure mediche disponibili solo all’estero non può uscire da Gaza: persone “affette da problemi di salute come insufficienza renale, cancro e malattie cardiocircolatorie e che hanno bisogno di cure urgenti o di ulteriori test diagnostici”. Lo dice un funzionario del ministero della sanità palestinese, che aggiunge: “Se la chiusura continua, le loro condizioni di salute si deterioreranno e inizieremo a vedere i primi decessi”. Secondo un altro reportage, “i funzionari dell’Autorità Palestinese affermano che il risentimento cresce per la continua chiusura del valico di frontiera, ormai sbarrato da più di un mese”. Il reportage dice che il numero di palestinesi bloccati fuori è salito a 3.500, ed è più di mille il numero di quelli che hanno bisogno di cure mediche urgenti, ma sono bloccati dentro la striscia di Gaza.

Come immaginate le notizie in prima pagina? Israele trasforma Gaza in una prigione! La reazione dell’Onu? Chiederebbe con pressante urgenza al governo israeliano di riaprire il valico e permettere il passaggio almeno di coloro che hanno bisogno urgente di cure mediche, affinché possano raggiungere medici e ospedali. E il Dipartimento di Stato americano? Probabilmente si direbbe profondamente turbato per la dimensione umanitaria e fermamente convinto che il passaggio debba essere riaperto immediatamente. Marce e manifestazioni nelle capitali europee? Certamente, con cartelli e striscioni che denunciano: questo è un genocidio! E certamente qualcuno salperebbe con una flottiglia per rompere il blocco su Gaza.

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Invece, niente di tutto questo. Perché? Perché il blocco c’è, ma il passaggio in questione è il valico di Rafah tra striscia di Gaza ed Egitto, non Israele. E il paese che lo sta tenendo sbarrato, con le conseguenze di cui sopra, è l’Egitto, non Israele. E il crescente “risentimento” dei palestinesi, in questo caso, è tutto verso il governo egiziano, non quello israeliano.

La spiegazione ufficiale del Cairo è che la sicurezza richiede questa chiusura. Recentemente il gruppo terroristico egiziano Ansar al-Beit Maqdis ha promesso fedeltà al gruppo “Stato Islamico” (ISIS). Lo scorso ottobre 33 membri delle forze di sicurezza egiziane sono stati uccisi dai terroristi. La scorsa settimana, altri cinque. Si potrebbe discutere come mai questi eventi richiedano che le persone bisognose di cure mediche restino bloccate a Gaza senza poter utilizzare il valico di Rafah. Ma non è il punto che mi interessa qui.

Quello che voglio far notare è che, se fosse Israele a tenere chiuso il passaggio chiave dicendo semplicemente che lo richiede la sua sicurezza, scoppierebbe un pandemonio. Le condanne pioverebbero a dirotto. Invece, silenzio quasi totale. Perché? La solita doppia morale? La consueta mancanza di interesse del resto del modo quando arabi maltrattano altri arabi? L’inconfessabile desiderio di non criticare il governo al Cairo del presidente Abdel-Fattah al-Sissi? Probabilmente tutto questo. Ma certamente, di fronte a questo spettacolo, un palestinese avrebbe ragione di concludere che al mondo, compresi i “filo-palestinesi”, della sorte dei palestinesi non interessa un fico secco a meno che non possa essere brandita come un randello contro Israele. Insomma, niente di nuovo sotto il sole.

(Da: Israel HaYom, 24.11.14)

 

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