Come sempre la politica mediorientale è ricca di retroscena e sorprese. Nulla è mai come appare e i giochi dietro le quinte sono all’ordine del giorno. Cerchiamo di capirci qualcosa e, soprattutto, cerchiamo di capire la politica di Netanyahu e di Israele nei confronti di Hamas e della ANP

Cosa sta succedendo in Palestina? Abu Mazen (Mahmoud Abbas) prima annuncia il suo ritiro scatenando ridde di voci sui possibili successori, ma poi si rimangia tutto. Hamasappare diviso tra l’ala politica, possibilista su colloqui con Israele (sponsorizzati dall’Arabia Saudita che però nega o è restia ad ammetterlo), e l’ala militare intransigente che invece vorrebbe una guerra totale con Israele e un’alleanza con l’Iran. Cerchiamo di capirci qualcosa e cerchiamo di capire come potrebbe evolvere la situazione.

La ANP e la Cisgiordania

Partiamo dalla situazione in seno alla Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che solo all’apparenza appare la più chiara. In ballo non c’è solo il controllo della Cisgiordania ma la gestione delle centinaia di milioni di dollari degli aiuti internazionali che fino ad oggi sono stati controllati (e fatti sistematicamente sparire) da Abu Mazen e dal suo stretto entourage. Il vecchio Mahmoud Abbas ha ormai 80 anni e, anche se appare in buona salute, non potrà continuare per molto tempo a fare il Presidente della ANP, il capo di Fatah, il capo della OLP e il gestore dei ricchi affari della sua famiglia in tutto il mondo. A qualcuno deve pur lasciare il testimone. Secondo Hani el Masri, analista palestinese di Ramallah, il più accreditato sarebbe Marwan Barghouti che però sta scontando tre ergastoli in Israele. L’altro sarebbe Yasser Abed Rabbo, ex Segretario Generale della OLP che però è stato silurato da Abu Mazen a favore del “più amichevole” Saeb Erekat, altro candidato alla sostituzione di Abbas. Ci sarebbe poi Salam Fayyad, ex Primo Ministro palestinese molto apprezzato in occidente, anche lui però silurato da Abu Mazen e recentemente accusato di riciclaggio di denaro. Infine c’è il più accreditato di tutti in caso di elezioni, Mohammed Dahlan, acerrimo nemico di Abu Mazen, ex capo di Fatah a Gaza dove si è rifugiato per sfuggire all’arresto da parte della polizia palestinese.

Hamas e la Striscia di Gaza

Non meno complessa è la situazione all’interno del gruppo terrorista che controlla la Striscia di Gaza. Hamas appare profondamente diviso tra la corrente politica capeggiata daKhaled Meshʿal e l’ala militare diretta da Moḥammad Dief. Da mesi Khaled Meshʿal è impegnato in un riavvicinamento all’Arabia Saudita in cambio della rinuncia all’appoggio iraniano, un riavvicinamento che comporta però un dialogo con Israele proprio in configurazione anti-iraniana, una linea che si scontra con quella intransigente verso Israele di Moḥammad Dief che invece punta proprio a una rinnovata alleanza con Teheran. In mezzo ai due si posiziona Ismail Haniya, capo di Hamas a Gaza, che ha una posizione a dire il vero poco chiara, divisa tra la politica “progressista” di Khaled Meshʿal e quella “conservatrice ed estremista” di Moḥammad Dief.

Il Governo di Unità Nazionale e le nuove prospettive

Nel mese di aprile del 2014 Hamas e Fatah firmano un accordo di riconciliazione che nelle intenzioni dovrebbe dare il via a un Governo di Unità Nazionale per portare la Palestina a nuove elezioni. Il Governo in realtà nasce veramente ma sin da subito ci sono feroci dispute legate ai soldi. La ANP dovrebbe garantire lo stipendio dei 40.000 lavoratoti pubblici di Gaza (oltre ai 70.000 della Cisgiordania), soldi che però non arrivano. Le cose peggiorano dopo la guerra di Gaza dello scorso anno quando la disputa passa sulla gestione degli enormi fondi destinati alla ricostruzione di Gaza. Hamas ne pretende la gestione almeno parziale, la ANP rifiuta e gestisce tutto da Ramallah. Il risultato è che la ricostruzione di Gaza procede molto a rilento e solo grazie a interventi diretti di alcuni Paesi arabi (soprattutto il Qatar) e all’apertura israeliana al passaggio di cemento per l’edilizia. Di recente, a seguito dell’intervento dell’Arabia Saudita e della Giordania, Abu Mazen e Khaled Meshʿal si sono visti per rilanciare il Governo di Unità Nazionale ma senza apprezzabili risultati dato che le distanze rimangono importanti. Abu Mazen poi non ha digerito molto i colloqui che gli emissari di Khaled Meshʿal stanno tenendo in Giordania con emissari israeliani con la mediazione saudita e che hanno portato a un passo da diversi accordi (tra i quali quello per il gas per Gaza) e che di fatto tagliano fuori completamente sia la ANP che l’Unione Europea e potrebbero portare a un lungo periodo di tregua con Israele che porterebbe ad enormi benefici per la Striscia di Gaza.

Perché UE e ANP non vogliono una tregua tra Hamas e Israele?

Gli ostacoli a un accordo tra Hamas e Israele non si limitano solo alla intransigenza (ben pagata dall’Iran) di Moḥammad Dief e dalla presenza a Gaza di vari gruppi legati sia all’ISISche all’Iran (la Jihad Islamica), quelli più subdoli arrivano dalla ANP e incredibilmente dall’Unione Europea. Se mai si dovesse raggiungere un accordo di lunga durata tra Hamas e Israele salterebbero tutti gli equilibri all’interno del “sistema palestinese” e il primo a farne le spese sarebbe Abu Mazen che perderebbe tutto l’attuale peso che incredibilmente la comunità internazionale gli ha attribuito. La soluzione pacifica della questione di Gaza e il relativo sviluppo della Striscia porterebbe con se conseguenze pesantissime per la ANP, in primo luogo perché non potrebbe più gestire i fondi per la ricostruzione di Gaza, e poi perché dimostrerebbe che la politica europea nei confronti di Israele è totalmente sbagliata. Se gli arabi (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar) riuscissero in quello che la UE non è riuscita, sarebbe uno schiaffo in faccia clamoroso per gente come la Mogherini che ha puntato tutto proprio su Abbas e su una collaborazione in Medio Oriente con l’Iran. Ed è proprio Teheran che verrebbe danneggiata da un eventuale accordo tra Israele e Hamas in quanto permetterebbe a Gerusalemme di concentrarsi unicamente sul fronte della lotta all’Iran, che è il punto che più interessa agli arabi.

Su cosa gioca Netanyahu?

Ormai gli accordi di Oslo sono sostanzialmente saltati, superati persino dall’Europa e dalla sua decisione di “etichettare” i prodotti provenienti dalla Zona C e persino dal Golan. Ogni trattativa con la ANP si basava su quegli accordi. Europa e Nazioni Unite pendono dalle labbra di Abu Mazen nonostante il Presidente della ANP sia sostanzialmente un dittatore e gli concedono praticamente di tutto. In una situazione come quella in cui si trova Israele con minacce concrete sia al confine nord (Hezbollah e Iran) che in quello sud dove l’ISIS è presente nel Sinai, la cosa più logica da fare è cercare di risolvere la minaccia che proviene da Hamas e da Gaza per potersi concentrare sugli altri fronti lasciando perdere tutto il resto, compresa la questione palestinese. Ma ci sono solo due modi per risolvere la minaccia di Hamas: il primo è una guerra violentissima che porti alla eliminazione fisica di Hamas e probabilmente alla ri-occupazione di Gaza. Il secondo, più pragmatico, è trattare con Hamas per raggiungere un cessate il fuoco di lungo periodo facendo alcune concessioni ai terroristi palestinesi. Trattare con Hamas significa anche mettere in un angolo Abu Mazen e Unione Europea, mostrando al mondo la loro bassezza politica. E qui entrano in gioco gli arabi che, nonostante le smentite di forma (come evidenziato dal Times of Israel) sono molto interessati al raggiungimento di un accordo tra Israele e Hamas in modo da permettere a Gerusalemme di concentrarsi nella lotta alla infiltrazione iraniana in Siria. I giochi sono tutti aperti e le trattative a buon punto anche se gruppi affiliati all’ISIS e la Jihad Islamica, proxy iraniano a Gaza, stanno facendo di tutto per far precipitare la situazione. Netanyahu sta giocando una partita molto difficile e delicata (come lo sono sempre in Medio Oriente) e sa che forse non tutti in Israele lo apprezzeranno, ma in questo momento Israele non può combattere contemporaneamente su tre fronti e in una scala di priorità il rischio maggiore per lo Stato Ebraico arriva dall’Iran e dai suoi proxy regionali. Le scelte di Netanyahu non saranno quindi molto popolari ma sono certamente pragmatiche. Se poi possono contribuire a mettere a nudo l’assurda politica di Abu Mazen e della UE, allora otterranno un doppio beneficio.

Analisi scritta da Paola P.

 

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