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Da L'OPINIONE del 7 marzo 2007

Tutti lo sanno: le guerre, specialmente quelle asimmetriche (eserciti contro terroristi), si vincono più con la disinformazione mirata che con le bombe intelligenti. Gli arabi, e soprattutto i palestinesi fra loro, lo hanno capito da tempo e in attesa di avere l’atomica con cui distruggere l’odiato stato di Israele da anni hanno messo su una vera e propria multinazionale della mistificazione per immagini.

Tutti lo sanno: le guerre, specialmente quelle asimmetriche (eserciti contro terroristi), si vincono più con la disinformazione mirata che con le bombe intelligenti. Gli arabi, e soprattutto i palestinesi fra loro, lo hanno capito da tempo e in attesa di avere l’atomica con cui distruggere l’odiato stato di Israele da anni hanno messo su una vera e propria multinazionale della mistificazione per immagini. E i bloggers moderati e filo-israeliani di tutto il mondo, dopo avere smascherato alcuni dei trucchi più ricorrenti, l’hanno chiamata “Pallywood”, che ovviamente è un neologismo che integra la parola palestinese e quella di “Hollywood”. Naturalmente anche la carta stampata ha un ruolo nella propalazione di queste notizie false, ma a quella già da tempo è stata fatta la tara. Basti pensare che già dalla guerra in Libano del 1982, quella in cui Sharon costrinse Arafat a levare le tende dal sud della capitale, ci furono giornali che parlarono di un numero incredibile di profughi dal sud del Libano. Seicentomila fu la cifra diffusa dai maggiori media internazionali, e nessuno pensò di controllare quanti abitanti avesse davvero il Libano in quella zona. Perché sennò si sarebbero accorti che la cifra non sperava le 300 mila unità.

Nella seconda guerra del Libano invece più che con le parole la disinformazione viaggiò con le immagini. Dopo i primi bombardamenti, fotografi arabi che lavorano per la Reuters e la Associated press, gente come Issam Kobaisi, Ramzi Haidari, Hussei Haffa e il famigerato Hadnan Haji, cominciarono a gestire la diffusione delle foto sui media di mezzo mondo. In particolare bombardarono le redazioni di una sequenza di immagini di Beirut bombardata con in primo piano sulle macerie una serie di giocattoli da bimbo. Di solito Minnie e Topolino erano i soggetti di questo trucco della bambolina che è vecchio quanto il cucco, e consiste nell’aggiungere su una specie di set preparato ad hoc, l’elemento commovente che suggerisce che un bambino potrebbe essere morto in quel posto lasciando sul selciato il giocattolo, “la bambolina”, che teneva in mano al momento del bombardamento. Tutte mistificazioni fotografiche incredibili: prima di tutto perché bastava guardare con un minimo di malizia la foto per rendersi conto che il particolare della “bambolina” non poteva non essere stato aggiunto dal preparatore del set del fotografo.

Infatti sono uscite immagini con giocattolini sempre identici ma una volta con un piede storto a destra e un’altra con il piede storto a sinistra. Poi erano sempre incredibilmente puliti, mai impolverati e sapientemente disposti in primo piano. E poi, molto cinicamente, possibile che ogni bombardamento a Beirut si concludesse con la caduta di un palazzo dal quale emergeva come per miracolo sempre una bambolina che si andava a mettere in cima alle macerie? La storia di Pallywood è stata magistralmente illustrata dal giornalista Mario Reis durante il suo intervento al convegno “Due pesi due misure”, organizzato dal 2 al 4 marzo a Roma da Angelo Mezzana e dalle associazioni di amicizia italo-israeliane. Reis tra l’altro ha fatto vedere una foto che è considerata un po’ la madre di tutte queste mistificazioni: in essa, all’epoca dell’inizio della seconda intifada, dopo la famosa passeggiata di Sharon sulla spianata del tempio di Salomone, si vede un soldato israeliano che brandisce minaccioso un manganello e in primo piano c’è un giovane con la faccia insanguinata.

La didascalia dell’Associated press recita così: “an israelian policeman and a palestinian on the Temple Mount”. La foto è di un fotografo arabo che confidava sul fatto che basta mettere l’immagine di uno con la faccia insanguinata vicino a un poliziotto israeliano che brandisce un manganello, per potere classificare il primo come palestinese sofferente e picchiato e il secondo come aguzzino picchiatore. Peccato che quella foto fosse invece l’esatto contrario: il ragazzo era Read Tuvya Grossman, ebreo americano che era stato tirato fuori di peso dalla propria macchina da alcuni estremisti palestinesi che lo avevano colpito pugnalandolo, e il poliziotto brandiva il manganello per proteggerlo e disperdere i manifestanti. Cosa che appariva chiara guardando gli occhi minacciosi del soldato che nella foto guardavano al di là del ragazzo seduto per terra con il volto rigato di sangue. Eppure quella foto è stata per alcuni giorni il simbolo della ferocia israeliana e non, come doveva essere, di quella palestinese.

Nella guerra del Libano della scorsa estate i livelli di mistificazione fotografica raggiunsero livelli grotteschi. Ci sono interi set di un ragazzo seminudo che “fa il morto” stringendo sotto l’ascella il berretto da baseball nell’evidente timore che qualche partecipante alla sceneggiata glielo rubasse mentre posava. Poi alla fine degli scatti il ragazzo resuscitava come Lazzaro e si rimetteva in testa il cappello tanto ben custodito e via. Vennero poi saccheggiati gli obitori dai militanti hezbollah perché si dovevano organizzare le corse con i fotografi occidentali, tutti davanti a semicerchio e il finto papà addolorato dietro con l’infante morto brandito come una potente arma mediatica contro Israele. Un vero e proprio sciacallaggio del dolore e della morte, con l’utilizzo di questi bambini morti come “bamboline” di carne e ossa. Tutte le volte che i bloggers li hanno individuati, visto che si trattava sempre degli stessi “papà” a Tiro, Sidone e Beirut, gli attori risultavano essere militanti hezbollah. Intanto però non solo quotidiani volutamente faziosi e disinformanti sul conflitto arabo palestinese israeliano, ma anche grossi quotidiani moderati cadevano ogni giorno in queste trappole e pubblicavano queste foto finte e studiate a tavolino come in un film. Non si contano quelle pubblicate in prima pagina da “The Independent”, “Manifesto”, “Liberazione” e “The Guardian”, ma anche il “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “El Pais” e “la Repubblica” non sono stati da meno.

E questa considerazione riporta al problema della deontologia: come è possibile che un direttore faccia pubblicare foto del genere? Possibile che il trucco della bambolina lo conoscono tutti tranne che lui? Oppure premeditatamente si decide che la foto che rappresenta una messinscena sia utile pubblicarla perché attrae più lettori? Il problema è che non si va tanto per il sottile come dimostra il fatto che lo stesso Corriere della Sera per la fretta di trovare una foto molto espressiva su Guantanamo, non si è accorto di averne pubblicata una, lo scorso 17 dicembre a pagina 5, che invece raffigurava la locandina del film “The road to Guantanamo”. E quando il giornalista Marco Reis glielo ha fatto notare con una mail al vetriolo, hanno chiesto scusa a lui ma non hanno sentito il dovere di chiedere perdono ai lettori che non hanno potuto nemmeno leggere una riga di precisazione. E gli ideatori di Pallywood sanno che possono contare proprio su questi negligenti e protervi operatori della disinformazione per lanciare il proprio messaggio di odio anti-israeliano o anti-americano che sia.

L'Opinione
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