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Si è saputo soltanto oggi, ma risale al 20 maggio l’arresto da parte della polizia israeliana, presso il valico di Eretz, di due donne residenti nella Striscia di Gaza. La loro intenzione era quella di perpetrare un duplice attacco suicida in luoghi

affollati di Tel Aviv e di Netanya. Organizzati dalla Jihad Islamica Palestinese, gli attacchi suicidi avrebbero dovuto aver luogo nei giorni durante i quali, con maggiore intensità, gli attacchi missilistici di Hamas si abbattevano sulla popolazione ebraica del Negev occidentale. Le donne portavano con sé falsi documenti medici per poter entrare in Israele.

La più anziana, Fatima Younes Hassan Zaq, 39 anni, madre di otto figli e incinta del nono, in passato ha lavorato per il Ministero del Lavoro della Striscia di Gaza ed è stata anche coordinatrice tra le donne che desideravano compiere attacchi suicidi e le varie organizzazioni terroristiche sul territorio. La più giovane, Rawda Ibrahim Younes Habib, 30 anni, madre di quattro figli, è la nipote di Fatima Younes Hassan Zaq. Entrambe sono esperte nel maneggio di cinture esplosive, Fatima Zaq sa adoperare con destrezza anche il mitragliatore Kalashnikov.

Come per ogni altro attentato suicida, le due donne – prima di partire alla volta di Israele – hanno girato il loro video di rivendicazione con il Corano stretto tra le mani. Le riprese sono state attuate dal figlio diciannovenne di Fatima, anch’egli attivista nella Jihad Islamica Palestinese.

Prima di Fatima e di Rawda altre donne palestinesi hanno scelto la strada del terrorismo e dell’attacco suicida. Basti pensare, a titolo di esempio, a Wafra Idris, la giovane infermiera che il 27 Gennaio 2002 seminò distruzione e morte in Jaffa Road a Gerusalemme; alla ventunenne Dareen Abu Aisheh che si immolò il 27 febbraio 2002 al check-point Maccabim; alla diciottenne Ayat al-Akhras che il 29 marzo 2002 si fece esplodere in un supermercato di Gerusalemme; alla ventunenne Andaleeb Taqataqah, che il 12 aprile 2002, sempre a Gerusalemme, si fece esplodere al mercato di Mahane Yehuda, come anche all’attentato condotto dalla ventinovenne avvocatessa Hanadi Taysir Jaradat al ristorante Maxim di Haifa (4 Ottobre 2003). Ma neanche bisogna dimenticare il ruolo femminile di fiancheggiatrici: nei soli mesi di Agosto e Settembre 2006, moltissime donne sono state arrestate in Cisgiordania. Lavoravano come corrieri, trasferendo fondi destinati al terrorismo dalla Siria ai Territori Palestinesi.

In moltissime occasioni, poi, le donne sono state adoperate come collaboratrici, informatrici, scudi umani, esche sessuali, autiste per portare i terroristi sul luogo dell’attentato. Le donne che si sono spinte sino al mettere in pratica l’attacco suicida sono diventate modelli da imitare nella società palestinese: le loro fotografie appaiono appese in posters sui muri, ma anche nei libri rivolti all’infanzia. E come ha esclamato una donna, in occasione di un’orazione funebre in onore di una terrorista suicida: “E’ stata madre di un martire, sorella di un martire, figlia di un martire e ora lei stessa è divenuta una martire!”

Se tutto ciò appare triste, non bisogna comunque dimenticare che non è nemmeno la prima volta che le organizzazioni terroristiche adoperano motivi umanitari, come le cure mediche, per potersi infiltrare in Israele. Tra i diversi episodi, giovi ricordare quello del 20 Giugno 2005, quando una ragazza di soli 21 anni arrivò al valico di Eretz indossando poco più di 10 kg di esplosivo: si stava recando all’ospedale israeliano di Beer-Sheva per alcune terapie specialistiche.

In conclusione si impone una riflessione: alle donne palestinesi viene richiesto di immolarsi contro il nemico, ma allo stesso tempo viene imposto di accettare l’egemonia patriarcale e le leggi di sottomissione della sha’ria (che prevedono la lapidazione della ragazza anche qualora questa venga violentata). Il mondo occidentale può continuare a chiudere gli occhi, lavandosene le mani, con la scusa del rispetto nei confronti di un’altra cultura?

 

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