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Gli Americani se lo sono meritato. Questa volta lo possiamo dire, senza citare tra virgolette qualche pensatore anti-americano. Gli Americani hanno sbagliato a Gaza. Le immagini dei

miliziani islamisti incappucciati che massacrano i civili, saccheggiano le chiese e issano ovunque le loro bandiere verdi, sono anche colpa di Washington. Non nel senso inteso dal diplomatico delle Nazioni Unite Alvaro De Soto pronto ad accusare gli Usa per non aver riconosciuto la legittimità del governo di Hamas, provocando l’esasperazione dei Palestinesi. Ma proprio per il motivo opposto: furono gli Usa che insistettero più di altri per ammettere Hamas alla competizione elettorale del 25 gennaio 2006. Furono gli Usa che premettero con Sharon e poi con Olmert per permettere elezioni libere e aperte a tutti in Cisgiordania e a Gaza. Furono sempre gli Stati Uniti a convincere gli Israeliani a far votare i Palestinesi a Gerusalemme Est e a permettere ai Palestinesi di non rinviare le elezioni.
Nel settembre del 2005, immediatamente dopo che l’ultimo colono e l’ultimo soldato israeliano lasciarono la Striscia di Gaza, Ariel Sharon aveva dichiarato di fronte alla stampa internazionale: “Non accetteremo mai che questa organizzazione terroristica, questa organizzazione terroristica armata, partecipi alle elezioni” riferendosi a Hamas e aggiunse: “Non vedo come possano tenere delle elezioni senza il nostro aiuto. Noi faremo di tutto per non aiutarli nelle loro elezioni”. E alle domande dei giornalisti americani sulla democraticità di questa politica rispondeva: “Un’organizzazione armata non diventa democratica solo perché partecipa alle elezioni”. Gli Stati Uniti, contrariamente ai governi europei, non hanno mai negato la natura terroristica di Hamas. Immediatamente dopo le dichiarazioni di Sharon, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale Frederick L. Jones dichiarava che: “Hamas è un’organizzazione terroristica che deve rinunciare alle armi e alla lotta armata”, ma anche che: “Una decisione su chi debba o non debba partecipare alle elezioni spetta ovviamente all’Autorità Nazionale Palestinese. Non crediamo che si possa costruire uno stato democratico quando i partiti o i candidati competono per il potere non tramite elezioni, ma con attività terroristiche”. Fu questa la linea seguita dal Dipartimento di Stato americano guidato da Condoleezza Rice: tollerare gli intolleranti. Nel corso di una visita di Abu Mazen a Washington, Bush approvò tacitamente la partecipazione di Hamas alle elezioni, limitandosi ad avvertire il presidente palestinese che “gruppi palestinesi armati” avrebbero potuto danneggiare la costruzione di uno Stato democratico. Ancora a metà novembre del 2005, la Rice si incontrò con Sharon e premette per far ammettere Hamas alla competizione elettorale. Secondo il segretario di Stato statunitense, Israele si sarebbe garantito un maggior riconoscimento internazionale che, a sua volta, avrebbe consentito una maggior pressione sull’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere un disarmo delle milizie di Hamas. Sharon aveva però rifiutato i termini dell’accordo, aveva continuato a far arrestare alcuni tra i maggiori esponenti di Hamas e aveva minacciato di abbandonare la Road Map nel caso il partito islamista fosse entrato nel governo dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Appoggiamo con tutto il cuore gli sforzi del presidente Bush per la democratizzazione in Medio Oriente” – aveva dichiarato Sharon in quell’occasione – “Ma non aiuteremo Hamas, non aiuteremo gli assassini di Ebrei neppure se partecipano alle elezioni”. Israele, tuttavia, aveva la possibilità di ostacolare una vittoria elettorale di Hamas, ma non di proibirla del tutto. Per escludere definitivamente il partito islamista dalla competizione sarebbe occorso un intervento diretto del presidente Abu Mazen, o una forte pressione internazionale. Inutile dire che non si realizzò né l’una né l’altra condizione. Un’ultima possibilità fu quella di proibire le elezioni a Gerusalemme Est, la parte di città il cui status è ancora conteso. Il governo Olmert (Sharon era appena stato colpito da ictus) decise di proibire le elezioni se Hamas si fosse presentato. Una decina di giorni prima delle elezioni, Abu Mazen annunciò ufficialmente che le elezioni si sarebbero tenute regolarmente anche a Gerusalemme Est e dichiarò che gli Stati Uniti appoggiavano la sua posizione. In effetti, proprio in quei giorni, un team diplomatico statunitense viaggiava in Israele per persuadere i funzionari israeliani a permettere elezioni libere e aperte. Il 15 gennaio Israele consentì anche agli Arabi di Gerusalemme Est di recarsi alle urne, anche se il premier Olmert mise in chiaro che: “Non ci sarà alcuna propaganda per Hamas e gli attivisti che dovessero entrare a Gerusalemme Est saranno arrestati”.
Alla fine le elezioni parlamentari palestinesi si tennero regolarmente il 25 gennaio. Furono tra le più libere e legali del Medio Oriente. E si conclusero con una vittoria netta di Hamas. Tutti i sondaggi e persino l’exit poll davano per vincente il partito di Al Fatah, fedele ad Abu Mazen. Sarà forse per questo che gli Americani riponevano così tanta fiducia in elezioni libere e aperte anche a Hamas? Non solo. All’interno dell’amministrazione americana c’era (e c’è stata fino allo scorso maggio) la speranza che Hamas, partecipando a un processo elettorale, diventasse una formazione più “pragmatica”.
La vittoria di Hamas colse tutti di sorpresa. Per alcuni sarebbe stata l’occasione d’oro della comunità internazionale per aprire gli occhi e svegliarsi sulla reale minaccia che incombeva su Israele. Altri opinion maker, come Daniel Pipes, erano completamente disillusi: “Ma io nutro una fioca speranza che Hamas al potere non provochi una reale presa di coscienza. La comunità ‘del processo di pace’ non rinuncerà alle sue adorate negoziazioni solo perché un’organizzazione totalitaria omicida è stata eletta. Come avviene inesorabilmente dal 1993, essa ignorerà questo contrattempo e andrà avanti per ottenere ulteriori concessioni da parte di Israele”. E in effetti così è stato: nonostante il boicottaggio internazionale, gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese sono affluiti in grande quantità. E sono continuate, per un anno e mezzo, le pressioni su Israele perché contenesse al minimo le sue risposte militari.
Solo oggi si può comprendere in pieno che la libertà di Hamas di partecipare alle elezioni non è servita né a salvare la libertà dei Palestinesi (che da un anno e mezzo sono sottoposti alla legge islamica dove le milizie di Hamas spadroneggiano), né alla loro democrazia (visto che Hamas, essendo ancora armata, ha conquistato Gaza con la forza), né alla sicurezza di Israele, dato che Hamas continua a lanciar razzi oltre il confine. La vittoria di Hamas pone il dilemma fondamentale della democrazia: meglio una dittatura più “liberale” o una democrazia in cui può vincere un partito totalitario e guerrafondaio? L’analista neoconservatore Ariel Cohen non esclude la strada della “democrazia protetta”. Non occorre ricorrere alla repressione, ricordava all’indomani della vittoria di Hamas, nel corso di una conferenza presso l’American Enterprise Institute, basta rispettare “alcuni standard normativi che devono essere applicati da ogni partecipante di un processo democratico”. Tra queste norme: “Primo: i partecipanti alle elezioni devono accettare il pluralismo, la democrazia e la non-violenza. Devono riconoscere pieni diritti alle minoranze, alle donne e, dove è questione rilevante, il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri”.
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Stefano Magni
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