[b]Un articolo di Stefano Magni
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Il Grande Ayatollah Hossein Ali Montazeri è deceduto domenica notte. E’ morto di morte naturale, nel sonno, come testimonia suo nipone Nasser. Ma la sua scomparsa ha comunque dato una spinta ulteriore al movimento di protesta contro il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la “Guida Suprema”, l’Ayatollah Alì Khamenei.

L’ayatollah scomparso era il perno su cui ruotava l’opposizione al regime attuale. Non stiamo parlando di un democratico filo-occidentale, ma di un religioso sciita che partecipò in prima persona all’edificazione della Repubblica Islamica assieme a Khomeini. Avrebbe potuto essere lui il successore della Guida Suprema nel 1987, al posto di Khamenei. E dai giorni dell’ascesa del nuovo Ayatollah, fu uno dei suoi principali oppositori. Non solo per motivi di potere, ma anche politici e religiosi. Negli ultimi anni, in particolare, mise in discussione alcuni dei pilastri su cui si regge tutta la retorica del regime. Definì un “errore” la presa dell’ambasciata degli Stati Uniti da parte degli studenti rivoluzionari nel 1979, quella che è considerata alla stregua di un atto fondativo del nuovo regime. Per Montazeri, la presa degli ostaggi americani provocò delle conseguenze troppo gravi per il Paese, fu una “dichiarazione di guerra in tempo di pace” che costò a Teheran l’inizio dell’isolamento internazionale e dell’inimicizia americana. Opponendosi alla persecuzione delle minoranze, Montazeri emise una fatwa a protezione della comunità Ba’hai, condannandola da un punto di vista religioso, ma garantendole diritti di cittadinanza. Inutile dire che la sua posizione non divenne mai legge: i Ba’hai, più ancora che gli ebrei e i cristiani, sono tuttora perseguitati in Iran. Nel corso della Rivoluzione Verde contro Ahmadinejad, condannò la repressione delle milizie islamiche Basji definendola “satanica”. E in tempi di confronto duro con gli Stati Uniti sul programma nucleare, predicò la riapertura delle relazioni diplomatiche con Washington.
Montazeri soffriva da tempo di asma e di arteriosclerosi. E per questo la stampa di regime bollò le sue dichiarazioni come “senili”, o addirittura “false”, scritte cioè da dissidenti e attribuite a lui. Le strade a lui dedicate furono sistematicamente rinominate, i libri di storia riscritti per cancellare il suo contributo alla rivoluzione del 1979. Adesso, però, milioni di iraniani hanno celebrato la sua morte anche come segno di sfida nei confronti del regime. I funerali a Qom sono stati l’occasione giusta per riaprire la lotta e ieri la giornata si è conclusa con scontri, arresti e la chiusura di un quotidiano riformatore. Come in Cina, quando, alla morte del riformatore Hu Yaobang nel 1989, prese il via il movimento di protesta di Piazza Tienanmen, così anche in Iran il cordoglio per il decesso di un leader modernizzatore può dare il “là” a una nuova rivoluzione. Ma Alì Montazeri, così come a suo tempo Hu Yaobang, non era un democratico, né si poteva considerare come un dissidente. Anche Montazeri era un nemico dichiarato di Israele, tanto per fare un esempio: nel 2002 sosteneva apertamente gli attentatori suicidi della II Intifadah e propose un embargo petrolifero contro lo Stato ebraico. Nel 2009, pur predicando la riapertura delle relazioni con gli Usa, metteva in guardia però contro la “Lobby ebraica”, l’eminenza grigia, a suo dire, della politica estera di Washington. Un movimento di protesta, nato sulla falsariga della sua filosofia politica, potrebbe trascurare questi “particolari” e diventare una forza realmente democratica, come avvenne in Cina venti anni fa. Altrimenti non vi sarà alcuna speranza di riformare definitivamente il regime teocratico dal suo interno, preservandone i suoi fondamenti ideologici.

[b]L’Opinione 22 dicembre 2009[/b]
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