http://digilander.libero.it/parasha/archivio%2060/6003.htm[1] “Quando Avrahm ebbe novantanove anni, il Signore apparve ad Avram e disse lui: ‘Io sono “El Shadai” procedi dinanzi a Me e sii perfetto’”. (Genesi XVII,1)

[2] “Procedi dinanzi a Me: secondo il suo Targum (la traduzione aramaica di Onkelos), attaccati al Mio servizio. E sii perfetto: anche questo è un ordine che segue un ordine. Sii integro in tutte le Mie prove. E secondo il suo Midrash: procedi dinanzi a me con la mizvà della milà e con ciò sarai perfetto, poiché per tutto il tempo in cui hai il prepuzio, tu sei imperfetto dinanzi a Me. Un altra interpretazione: Sii perfetto, ora ti mancano cinque organi: due occhi, due orecchie e la testa, aggiungerò una lettera al tuo nome e sarà il valore numerico delle tue lettere 248, come il numero dei tuoi organi.”

Il Rambam, nell’introduzione ad Hilcot Avodà Zarà fa una breve analisi della storia “religiosa” dell’umanità. Egli sostiene, basandosi su numerose fonti Aggadiche, che all’epoca di Enosh l’umanità sia incorsa in un tremendo errore. Pensando di far cosa gradita al Creatore l’uomo ha iniziato a venerare gli elementi del creato: se D-o ha dato grande onore al sole e la luna, è evidente che noi dobbiamo fare altrettanto, sosteneva l’uomo. In questo passo logico risiede, secondo il Rambam, la radice stessa dell’idolatria. Il mondo ha dimenticato, a poco a poco, la presenza del Creatore, continuando a venerare solo gli elementi del creato. Tutto ciò fino a che non è giunto Avraham nostro padre, il “pilastro del mondo”.

Molto ci dice la Torà Orale dell’infanzia di Avraham, di come abbia riconosciuto il Signore come Creatore ed unico, di come abbia fatto proseliti e di come abbia superato molte e difficili prove. Eppure nella Torà scritta non troviamo neppure un accenno a tutto ciò. La Prof.ssa Nechama Laibovitch (“Iunim Chadashim al Sefer Bereshit pp.79-87) analizza questo problema portando numerose fonti.

Il Ramban (Nachmanide), ad esempio, sostiene che il motivo sia nel fatto che la Torà non vuole dilungarsi nelle pratiche idolatriche, cosa che si renderebbe necessaria nel ripercorrere l’infanzia di Avraham.

Molto interessante è anche un altra visione che la Laibovitch riporta sulla scia del Midrash Bereshit Rabbà (XXXII,3): l’importanza di Avraham è fondamentale a causa delle dieci prove che affronta. La Torà non è interessata a dirci chi era Avraham prima, se era giusto o malvagio, se conosceva il Signore oppure no. Un bel giorno Idd-o si rivela ad Avraham e gli dice di andarsene dalla casa paterna. Quello che conta nella vita di Avraham è il modo esemplare in cui affronta le avversità della vita, non le sue idee filosofiche.

Abbiamo quindi un primo impatto con un mondo nuovo. Il Seder Olam dice che con Avraham e con l’inizio del terzo millennio dalla Creazione inizia l’era della Torà. Ed in effetti inizia un’era nella quale cambiano radicalmente le dinamiche del comportamento richiesto all’uomo. Avraham, colui per il quale secondo il Midrash il mondo è stato creato, introduce un concetto nuovo nel mondo, quello dell’azione.

Il paragone classico che si presenta è quello con Noach. Di Noach si dice che “Con D-o procedeva Noach” (Genesi VI,9). Ad Avraham viene chiesto un salto qualitativo: “procedi dinanzi a Me”. Noach andava assieme al Signore, ad Avraham è chiesto di superare il Signore. Il mondo di Noach è ad uno stadio infantile, lo stadio in cui il genitore porta per mano il bambino, Avraham, primo vero adulto deve imparare a camminare da solo. Affascinante il fatto che il Midrash porti questo schema sino alle estreme conseguenze dicendo più avanti che Avraham è stato il primo uomo ad invecchiare fisicamente, cosa che avrebbe chiesto per evitare che la gente si confondesse tra Avraham ed Izchak. La necessità quindi di sancire la ciclicità della vita .

Questa idea viene citata da un altro commentatore, il Bet-Halevì circa il concetto di ‘El-Shadai’. Iddio si presenta infatti ad Avraham comandandogli la milà come ‘El Shadai’, che generalmente viene tradotto come ‘Iddio Onnipotente’. Il Midrash però lo interpreta come l’acrostico di “Sheamar leOlamò: ‘Dai’”, ossia “Che ha detto al Suo mondo: ‘Basta’”. Il Bet-Hallevì spiega che ci sono due aspetti nella autolimitazione che Idd-o compie: uno quantitativo ed uno qualitativo. Nel primo senso l’universo si espandeva continuamente fino a che D-o non disse ‘Basta’. Ma anche il processo biologico/agricolo sarebbe continuato se Idd-o non lo avesse fermato: la spiga si sarebbe tramutata in pane ed ogni altra specie nel prodotto finito. Ecco che entrambe le cose non sono positive perché negano all’uomo uno spazio definito nel quale operare sia quantitativamente che qualitativamente. Il Signore si presenta quindi come Colui che si è posto dei limiti proprio mentre comanda ad Avraham di fare la milà. Questo perché la milà rappresenta l’impegno umano nel completamento del mondo che è stato lasciato appositamente imperfetto perché giungesse l’uomo ad eseguire il ‘tikun’, l’aggiustamento.

Ed ancora il Bet-Halevì ci insegna il grande messaggio che si nasconde nella milà. Dopo il verso che abbiamo citato all’inizio (“Sii perfetto”) è detto: “E porrò il Mio patto tra Me e te.” (Genesi XVII,2). Il Bet-Hallevì individua in queste due espressioni le due fasi della milà: milà e perià. La milà è l’esecuzione del taglio sul prepuzio, mentre la perià è la successiva operazione con la quale si distende la carne scoprendo il glande. Le due fasi hanno anche un valore simbolico differente: con la milà si pratica la separazione tra Israele e le genti, ci si stacca dal mondo dell’idolatria. La perià è invece il vero e proprio sigillo del patto e rappresenta la santificazione di Israele e l’investitura nell’osservanza delle mizvot. Secondo questa lettura Avraham sarebbe stato comandato solo circa la milà ed avrebbe eseguito volontariamente la perià. Essa ci viene posta come precetto solo con il dono della Torà.

La pratica della perià doveva già essere stata universalmente accettata dagli ebrei quando scesero in Egitto perché il Midrash Shemot Rabbà ci racconta un interessante aspetto della schiavitù d’Egitto che il Bet-Hallevì commenta nello stessa scia.

Quando morì Josef gli ebrei capirono che si avvicinava il momento della schiavitù predetta ad Avraham. Essi allora “trasgredirono il patto della milà” per essere come gli egiziani, sperando di salvarsi. In quel momento il Signore li rese odiabili agli occhi degli egiziani.

Il Bet-Hallevì sostiene che non è possibile che gli ebrei avessero trasgredito effettivamente la mizvà. La loro idea era quella di apparire fisicamente uguali agli egiziani e perciò smisero di fare la perià che del resto non era stata comandata ma era diventata un uso.

Ma anche ciò, se andava bene secondo la lettera della regola, non era accettabile nello spirito. Infatti l’idea stessa della milà, prima ancora della perià, è quella di separasi e rendersi distinti. Loro invece rinunciavano a preparasi al mondo delle mizvot attraverso la perià per eliminare la differenza con gli egiziani!

Forse proprio in questa chiave dovremmo leggere un altro passo della nostra Pasrashà. Quando Avraham chiede a D-o una dimostrazione del fatto che erediterà la Terra d’Israele il Signore gli si rivela in una visione in quello che è chiamato il “Patto tra le parti”. Non è mia intenzione trattare questo passo in maniera esauriente, anche perché è uno dei più complessi dell’intera Bibbia. Ci limiteremo a qualche riflessione. Rashì e così pure il Midrash Rabbà (XLIV,17) indicano nella domanda una richiesta precisa: Avraham vuole sapere per quale merito la Terra verrà data ad Israele (e se dovessero peccare?). D-o risponde che il merito è quello dei korbanot, le offerte che Israele offrirà, che portano espiazione per le colpe. Parallelamente annuncia che Israele sarà straniero (oppure proselita) in Egitto e che sarà schiavo per poi essere redento.

Sembrerebbe quindi che le due dimensioni, quella dei korbanot e quella della yeziat mizraim siano garanzia di possesso della Terra d’Israele.

La parola “gher”, generalmente tradotta straniero, significa principalmente proselita, convertito nel senso di divenire ebreo. Il verso potrebbe allora anche essere letto come “Perché la tua discendenza si covertirà nella terra d’Egitto”. In qualche modo queste due dimensioni coincidono. Nel momento dell’uscita dall’Egitto in effetti avviene sia la presentazione del primo sacrificio di Israele come popolo, il korban Pesach, sia la identificazione con il popolo che comporta l’aspersione del sangue. Una sorta di conversione.

Straordinario il fatto che la Torà dica espressamente che per partecipare a questo processo è necessaria la milà: “Questo è lo statuto del Pesach, ogni incirconciso non ne mangierà.”

Pur non avendo trovato fonti in proposito, possiamo proporre, sulla scia del Bet-Hallevì, che in qualche modo il ripristino della mizvà della milà, prima di mangiare il Pesach in Egitto si riferisce principalmente al ripristino della perià. Da quel momento in poi, con la mizvà del Rosh Chodesh e quella del Pesach, Israele entra come popolo nel mondo delle mizvot e si santifica nell’osservanza della Torà. Necessita quindi non solo della separazione dal resto del mondo che si consegue con la milà ma anche la preparazione e la santificazione verso le mizvot della perià.

Forse allora quello che diceva D-o ad Avraham nel “Patto tra le parti” può essere inteso anche come un ulteriore rassicurazione.

Israele avrà la terra d’Israele perché arriverà un momento in cui la perià, che è il sigillo indelebile del patto, diverrà obbligatoria. Israele si rioccuperà della mizvà della milà controllando il modo in cui sta completando il mondo e si renderà conto che per un servizio completo dell’Eterno che passa attraverso le mizvot c’è bisogno di una milà completa che comprenda la perià. Allora se la perià rappresenta il patto perenne del mondo delle mizvot, possiamo dire che il senso dell’assicurazione data ad Avraham è il fatto che nel momento in cui Israele decide di diventare un tutt’uno con la Torà attraverso la perià, diventa un tutt’uno anche con la Terra e questo legame è indissolubile quanto il legame che lo lega alle mizvot.

A coloro che pensano che si possa essere ebrei in sapendo in maniera superficiale di essere diversi ma rinunciando alle mizvot per sembrare come gli egiziani risponde lo Shulchan Aruch:

“Mal velò parà, kheilu lo mal”. “Se ha fatto la milà e non la perià è come se non avesse fatto neanche la milà”.

Non c’è ebraismo senza mizvot, ce lo insegna Avraham nostro padre della cui infanzia, in fondo, non sappiamo nulla.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici

 

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