Obama dixit. Cronache e commenti di Maurizio Molinari,
Giulio Meotti

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore:
Maurizio Molinari-Giulio Meotti-

“Il no di Obama al Palazzo di Vetro frena il sogno della Palestina”,
così REPUBBLICA, oggi, 22/09/2011, seguita dall’UNITA‘ ” Obama
gela la Palestina”, per il giornale dell’ Ing.De Benedetti Obama ‘frena’, qui
‘gela’, è già un passo avanti, sul MANIFESTO invece “La Palestina può
attendere”, un titolo meno roboante, persino un po’ possibilista.
Ma veniamo alle analisi serie.
 Sulla STAMPA,  a pag.16, lo scenario è presentato da
Maurizio Molinari, sul FOGLIO, a pag.2, Giulio Meotti mette in guardia
sul voto di domani, raccontando i rapporti israelo-palestinesi per quello che
sono e i pericoli che incombono sullo Stato ebraico se la soluzione non dovesse
arrivare da colloqui bilaterali. Sempre sul FOGLIO, da New York, una
analisi sul piano B suggerito da Sarkozy.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari: ” Per la pace niente
scorciatoie”

«Le risoluzioni dell’Onu non servono, per arrivare alla pace l’unica strada è
il negoziato diretto»: il presidente americano Barack Obama sfrutta il discorso
dal podio dell’Assemblea Generale per opporsi alla richiesta dell’Autorità
nazionale palestinese (Anp) di essere riconosciuta come Stato membro delle
Nazioni Unite, ribadendo così la validità degli accordi di Oslo del
1993.

Dittatori in ritirata

Obama esordisce
definendo «notevole» l’anno trascorso per le svolte democratiche in più teatri:
«Il Sud Sudan è indipendente, il regime di Gheddafi è finito, Gbagbo, Ben Ali,
Mubarak non sono più al potere, Bin Laden se n’è andato, Al Qaeda è in rotta e i
dittatori sono in allerta» perché «la tecnologia consegna il potere nelle mani
del popolo». Ciò non toglie che «le difficoltà rimangono» perché nello Yemen e
Bahrein le transizioni sono ostacolate mentre «il regime iraniano opprime la sua
gente e quello siriano la uccide». Obama chiede al Consiglio di Sicurezza di
«agire in fretta» e schierarsi «dalla parte del popolo siriano», confermando che
il suo timone è «sostegno ai diritti universali degli individui ed alle
transizioni delle nazioni verso la democrazia».

«Sostegno a
Israele»
Obama ammette però «amarezza e frustrazione» perché l’anno
trascorso non ha portato alla nascita della «Palestina indipendente» da lui
auspicata proprio all’Onu. Parla di «stallo» e ammette che «la pace è difficile»
ribadendo che l’obiettivo resta quello dei due popoli e due Stati, per
concludere che «per raggiungerlo non servono le scorciatoie ma i negoziati
diretti». Da qui il no alla richiesta che l’Anp presenterà domani al Consiglio
di Sicurezza di essere riconosciuta come «Stato membro»: «La pace non arriverà
attraverso dichiarazioni e risoluzioni dell’Onu, devono essere israeliani e
palestinesi a raggiungere l’accordo sui temi che li separano: confini e
sicurezza, rifugiati e Gerusalemme». Nel parterre dell’Assemblea Generale il
silenzio è totale, con il presidente palestinese Abu Mazen che si mette una mano
sulla guancia mentre un suo collaboratore scuote la testa. Obama termina
ribadendo il sostegno per «uno Stato sovrano palestinese» e «l’incrollabile
sostegno alla sicurezza di Israele», aggiungendo: «Dobbiamo essere onesti, è
circondato da Stati che lo hanno aggredito e che minacciano di cancellarlo dalla
carta geografica, ha la memoria di sei milioni di vittime, merita relazioni
normali con i vicini».

Il plauso di Netanyahu Appena
uscito dall’aula, Obama incontra il premier israeliano Benjamin Netanyahu, gli
ribadisce la scelta di «non imporre la pace alle parti» e di «sostenere i
negoziati diretti» previsti dalle intese di Oslo, risalenti all’amministrazione
Clinton. Netanyahu replica: «Aver difeso questa posizione di principio in
un’aula dove c’è un’automatica maggioranza antiisraeliana equivale ad una
medaglia d’onore che la ringrazio di indossare». Netanyahu è convinto che il
tentativo dell’Anp di «usare l’Onu come una scorciatoia verso lo Stato» dimostri
che «non sono ancora pronti a fare la pace» ma si dice sicuro che «questa mossa
fallirà». La stretta di mano finale, sullo sfondo delle bandiere dei due Paesi,
rassicura Israele e consente a Obama di provare a respingere l’assalto dei
repubblicani che puntano a strappargli l’elettorato ebraico nel
2012.

La mossa di Sarkozy

Neanche due ore dopo
sul podio sale il presidente francese, Nicholas Sarkozy e avanza all’Anp una
proposta tesa a scongiurare la battaglia dei voti. «Il veto americano nel
Consiglio di Sicurezza innescherebbe le violenze, lo Stato palestinese diventi
osservatore» con la promessa di una adesione a pieno titolo «entro un anno». La
mossa francese cela la richiesta del Quartetto (Usa, Onu, Ue e Russia) all’Anp
di non accelerare i tempi del riconoscimento in cambio di forti
garanzie.

Abu Mazen rilancia

Con le città della
Cisgiordania imbandierate in attesa del riconoscimento, Abu Mazen confessa
«delusione» per Obama ma poi fa un mezzo passo indietro. «Sappiamo che questo
processo prenderà tempo», spiega il negoziatore Nabil Shaat, lasciando intendere
che la richiesta sarà fatta «senza chiedere subito il voto». In serata Obama e
Abbas si vedono al Waldorf Astoria, presente Hillary. A suggerire prudenza
all’Anp è anche la conta dei voti perché su 15 membri ne servono 9 favorevoli e
al momento sono 8: Russia, Cina, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Brasile, Libano e
India. È la Bosnia che, schierata con europei, Usa e Colombia, fa mancare il
quorum.

Il Foglio-Giulio Meotti: ” Per la pace niente
scorciatoie

Roma. “Mestani Dawla be Aylol”, uno stato per settembre, recita lo slogan
della campagna palestinese per l’ammissione alle Nazioni Unite come stato
membro. Per l’ennesima volta le pietre e la sabbia del medio oriente vedono
giorni fatali con la richiesta di indipendenza che domani Abu Mazen, presidente
dell’Anp, rivolgerà al Palazzo di Vetro. Potrebbe diventare lo stato numero 194.
Il significato simbolico dell’operazione è altissimo e drammatico. Israele può
contare sul veto americano in Consiglio di sicurezza, ma nessuno vuole arrivare
a bloccare una maggioranza mondiale a favore dello “stato di Palestina”. Abu
Mazen sarà applaudito dalla maggioranza dell’Assemblea generale come il grande
vindice palestinese. Sarà come un ritorno a quel lungo periodo in cui il
processo di pace ha avuto, agli occhi del mondo, un passo a dir poco
inarrestabile, fatto di strette di mano, di premi Nobel che fioccavano, di
delegazioni che viaggiavano dal Kuwait alla Giordania, di sorrisi che si
sprecavano. Solo che stavolta Israele non ci sarà e i palestinesi faranno tutto
da soli. Questa risoluzione non segnerà parole definitive, su quella metafisica
pietra bianca bagnata di sangue che è Gerusalemme, che Israele reclama come una
e indivisibile; sullo sradicamento, da insediamenti, che sono pezzi di cuore, di
oltre 500 mila ebrei; o sulle poche gocce d’acqua che dai tempi degli
assiro-babilonesi sono oggetto di mortale contesa. Sarà un momento drammatico
perché, come da annuncio dell’Olp, sarà uno “stato senza ebrei”, non come
Israele che ha in seno un venti per cento di cittadini arabi. Il rush
diplomatico all’Onu, spiega Barry Rubin, fra i massimi analisti di medio
oriente, distrugge vent’anni di diplomazia con Israele. Diciotto anni fa esatti,
il 13 settembre 1993, i palestinesi firmavano la Dichiarazione dei princìpi con
Israele sul prato della Casa Bianca, con cui si impegnavano a negoziati
bilaterali con lo stato ebraico. Abu Mazen allora era il braccio destro di
Yasser Arafat e l’Autorità palestinese ottenne soldi, terra e armi sulla base di
quell’impegno. E’ un momento drammatico perché Abu Mazen ha già detto che non
rinuncerà ai profughi, arma demografica contro Israele, né accetterà il
riconoscimento dello stato ebraico. Il danno diplomatico per Israele è
senz’altro pesante. E’ un momento drammatico anche perché, come scrive Yigal
Walt sul maggiore quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, “l’Autorità
palestinese non dispone di gran parte delle condizioni basilari che uno stato
funzionante dovrebbe avere”. Sarebbe l’unico stato al mondo senza una
popolazione permanente, senza confini riconosciuti, che non avrà un governo
eletto ma almeno due autocrazie, quella dominata da Fatah a Ramallah (in
Cisgiordania) e quella di Hamas a Gaza (dove Abu Mazen non può nemmeno mettere
piede). Il rischio che la piazza palestinese voglia ottenere tutto questo con
una nuova Intifada è sempre nell’aria. Da venerdì Israele potrebbe avere
assiepato sulle proprie spalle un nuovo stato. Non sparirà l’occupazione che
garantisce il diritto alla vita degli ebrei, l’esercito israeliano non lascerà
sguarnita la valle del Giordano, né consentirà a nessuno di dominare il proprio
vitale spazio aereo. Ma i palestinesi avranno messo a segno la più sensazionale
vittoria politica da quando Yasser Arafat nel 1964, in nome della distruzione
dello stato ebraico, fondò l’Olp. E’ un momento drammatico, perché se la
dichiarazione palestinese venisse approvata, i palestinesi potrebbero rivolgersi
alla Corte dell’Aia per far condannare le politiche di sicurezza di Israele e
gli insediamenti come “illegali”. E’ un momento drammatico per la sicurezza
dello stato ebraico: dall’ipotetico confine palestinese sulla linea del 1967
bastano sei chilometri per raggiungere l’unico aeroporto internazionale (quello
di Ben Gurion). Cosa accadrebbe allora se Hamas vincesse le elezioni in
Cisgiordania? O se la Giordania e l’Iraq cadessero di nuovo nel caos islamista?
Troppo spesso il sogno palestinese, ingigantito dall’abbraccio della comunità
internazionale, si è tramutato in incubo. Nel 2000, poche settimane dopo Camp
David, esplose la Seconda Intifada e furono duemila morti israeliani e
diciassettemila feriti. Tutto partì un 29 settembre a Qalqilya, durante una
ronda comune di guardie israeliane e di poliziotti palestinesi. Uno dei
palestinesi sparò in faccia all’israeliano seduto sulla stessa camionetta. Per
questo, mentre all’Onu i palestinesi festeggiano, in Israele ci si riarma fino
ai denti. Ad agosto ci sono stati 178 attacchi terroristici. Mai così tanti da
due anni.

Il Foglio- ” All’Onu c’è un piano B per evitare lo scontro
frontale con Abu Mazen “

New York. Quando al terzo intervento sul podio delle Nazioni Unite il
presidente dell’Assemblea generale invita i delegati ad abbassare il tono delle
chiacchiere di sottofondo è chiaro anche ai più distratti che le parole che
contano davvero si dicono altrove. Soprattutto sulla richiesta palestinese di un
pieno riconoscimento da parte dell’Onu: “Daremo un po’ di tempo al Consiglio di
sicurezza per valutare la nostra richiesta”, ha detto il consigliere palestinese
Nabil Shaath lanciando l’ennesimo messaggio ambiguo. Le trattative febbrili del
quartetto per il medio oriente (Stati Uniti, Europa, Nazioni Unite, Russia) per
convincere Abu Mazen a ritirare la richiesta presso il Consiglio di sicurezza e
rilanciare i negoziati diretti con Israele sta prendendo consistenza e a Barack
Obama, che dal podio ha detto che “la pace non si raggiunge con le risoluzioni
dell’Onu”, l’Autorità nazionale palestinese ha risposto con una cauta apertura:
“Siamo disposti a tornare al tavolo delle trattative nel momento in cui la parte
israeliana accetterà i confini del 1967 come base del negoziato e metterà fine
alla costruzione degli insediamenti”. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu,
ieri mattina ha incontrato Obama – “che merita una medaglia” per aver negato
l’appoggio allo stato palestinese – e ieri sera è stato il turno del bilaterale
con Abu Mazen: sono i riflessi pubblici di quel lavorìo con cui i negoziatori
stanno cercando di formulare una proposta accettabile per entrambi. Una proposta
fatta di date e scadenze, perché a questo punto nessuna dichiarazione di
principio convincerebbe il leader palestinese a rimangiarsi la parola data.
Parlando con i giornalisti, il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini,
non ha potuto svelare i termini delle conversazioni (anche se i temi sono di una
chiarezza ancestrale: colonie, confini, status di Gerusalemme est, profughi) ma
ha fatto capire che “il Consiglio di sicurezza si può ancora evitare”. Una bozza
di timetable l’ha data l’attivissimo presidente francese, Nicolas Sarkozy: un
mese per stabilire le precondizioni e riattivare i negoziati, sei mesi per
trovare un accordo di massima e altri sei mesi per arrivare a un accordo finale.
L’ottimismo di Sarkozy serve a esorcizzare la contraddizione di un paese (e non
è il solo) che ha fatto bella mostra di stare dalla parte giusta della primavera
araba – due settimane fa ha licenziato l’inviata Valerie Hoffenberg perché era
contraria alla candidatura palestinese – e ora non vuole essere costretto a
camminare sui carboni ardenti del voto al Consiglio. La contropartita per Abu
Mazen sarebbe l’elevamento a “stato osservatore” con il voto dell’Assemblea
generale (l’America ci sta, ma a condizione che non possa accedere alla Corte
penale dell’Aja, cosa che Sarkozy, fra un vento di libertà e l’altro, non cita).
L’accordo con le parti permetterebbe all’America di evitare il veto e all’Europa
di nascondere le divisioni sotto il cappello di una posizione comune. Ma data la
fluidità della situazione, si continua a lavorare sugli indecisi più aleatori
del Consiglio: Gabon, Nigeria e Bosnia Erzegovina.

 

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