Testata:La Stampa – il Foglio – Notizie Radicali – Il Giornale –
Adnkronos
Autore: Aldo Baquis – Redazione del Foglio – Alessandro
Litta Modignani – Gian Micalessin – Redazione di Adnkronos

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/09/2011, a pag. 21,
l’articolo di Aldo Baquis dal titolo ” Il discorso di Obama dettato da Israele
“. Dal FOGLIO, a pag. 3, l’articolo dal titolo ” Il sogno di Abu Mazen
all’Onu e l’eredità irrisolta di Arafat “. Da NOTIZIE RADICALI,
l’articolo di Alessandro Litta Modignani dal titolo ” I tanti fraintendimenti
dell’opinione pubblica europea. Israele-Palestina, la Grande Dispercezione “.
Dal GIORNALE, a pag. 18, l’articolo di Gian Micalessin dal titolo ” La
débâcle palestinese umilia ancora Obama” . Pubblichiamo il lancio
ADNKRONOS dal titolo ” M. O. : De Magistris firma appello per
riconoscimento Palestina presso Onu  “.
Ecco i pezzi:

La STAMPA – Aldo Baquis : ” Il discorso di Obama dettato da
Israele “


Abu Mazen con Barack Obama

«All’Onu Obama parlava in ebraico, il suo discorso era stato scritto da
Netanyahu»: queste le amare sensazioni che ieri hanno sospinto centinaia di
«indignados» nelle strade di Ramallah, fra la Muqata di Abu Mazen e Piazza
Arafat: dove, una volta radunati, hanno dato alle fiamme una bandiera degli
Stati Uniti e un poster del presidente americano. Sul Web, nel sito della Terza
Intifada, si preconizza per oggi in Cisgiordania una ondata potente di collera
popolare: cortei di protesta potrebbero cercare di sfondare i valichi militari a
Sud e a Nord di Gerusalemme. Possibili disordini anche sulla Spianata delle
Moschee in quello preannunciato come il «Venerdì della Palestina». L’esercito di
Israele mantiene lo stato di massima allerta. Intanto un accorato appello a
Netanyahu affinché, oggi all’Onu, offra un riconoscimento condizionato della
Palestina è stato lanciato dalla nuova leader laburista, Shelly Yehimovic (51
anni): un’ex giornalista radicale, vicina al movimento di protesta sociale dei
giovani: «Non vogliamo un “processo di pace”, vogliamo la pace», ha detto.

Il FOGLIO – ” Il sogno di Abu Mazen all’Onu e l’eredità
irrisolta di Arafat “


Abu Mazen con Yasser Arafat

New York. Superati tre strati di poliziotti, aggirate le transenne,
attraversata la strada alcune volte avanti e indietro senza una logica
apparente, buttato un occhio sugli attivisti tibetani che gridano “China shit!”,
urtati decine di delegati con blackberry nel fodero e tesserino azzurro si
accede finalmente al luogo dove folle svogliate aspettano che qualcosa spezzi la
rigidità protocollare dell’Assemblea generale dell’Onu. I consigli di lettura di
Hugo Chávez e il caravanserraglio di Gheddafi sono diversivi del passato e
persino Mahmoud Ahmadinejad è venuto a noia. Il presidente iraniano, che non
manca di senso della comunicazione, alla cena con gli studenti della Columbia di
mercoledì s’è trovato costretto a parlare della candidatura palestinese (leggi:
dell’odiato arabo) pur di finire nei titoli dei giornali: “La Palestina un
giorno sarà liberata”, ha detto.
Nell’intervista con Nicholas Kristof del
New York Times ha avuto addirittura l’ardire di sorridere. Il fatto è che ai
presenzialisti folli che arrivano, minacciano di cancellare l’occidente dalle
carte geografiche e tornano a casa il Palazzo di Vetro ci ha fatto il callo, e
così tutti si trovano ad aspettare Abu Mazen, languido dominatore delle giornate
onusiane che non strepita quando Barack Obama dice dal podio che le aspirazioni
palestinesi sono legittime e condivisibili, ma la candidatiura alla “full
membership” dell’Onu non è cosa. Si limita ad appoggiare la guancia cadente
sulla mano con un gesto più vicino alla rassegnazione che al contrattacco.

Per quello ci sono le porte chiuse degli incontri a margine, c’è il dialogo
franco con Obama nelle sale del Waldorf Astoria, blindatissimo hotel di
Manhattan dove i capi di stato discutono al riparo dalle regole della retorica
onusiana, c’è il registro dell’ambiguità, il preferito dal leader dell’Anp. Se
tutti nella sede dell’Onu aspettano Abu Mazen non è soltanto per vedere come
andrà a finire la disputa sullo stato palestinese che offende gli israeliani,
allerta gli americani e mette in confusione gli europei (la confusione è
direttamente proporzionale alla convinzione messa nel sostenere gli insorti
della primavera araba); è un fatto di simboli e immaginazione, di un passato che
riemerge dalle sabbie del tempo e torna a fare visita nel più cavernoso e
ambiguo dei consessi internazionali. Per Abu Mazen il confronto con Yasser
Arafat è sostegno e zavorra; c’è chi, come il New York Times, vede nella
richiesta palestinese di entrare di diritto nel novero degli stati il primo atto
del parricidio, l’inizio della liberazione di Abu Mazen dal cono d’ombra del
mentore, da quel nome evocativo che ha scelto per il suo secondogenito; è
sepoltura della kefiah e la resurrezione della cravatta, la dismissione dopo
sette anni del repertorio di immagini che identificavano senza equivoci un modo
d’intendere l’identità palestinese.
C’è invece chi dice sia soltanto un
maquillage, un gioco delle parti in cui Abu Mazen si muove con la furbizia del
serpente, un mentitore chic che s’aggira per New York con gli abiti della gente
perbene. Chi martedì è stato al cocktail party a dir poco esclusivo alla Morgan
Library racconta che Abu Mazen se ne stava in disparte, quasi ostentando
disinteresse per le chiacchiere innaffiate dallo champagne. Un inviato delle
Nazioni Unite ha provato invano a sondare la sua agenda, ché il Quartetto per il
medio oriente lavora giorno e notte per convincerlo a ritirare la candidatura e
tornare ai negoziati diretti: “Non sono felice con nessuno, né con gli americani
né con gli arabi. Ne ho abbastanza di tutta questa gente e non ho idea di cosa
farò una volta tornato a casa”. Già, perché a casa non sarebbe accolto da uno
sventolare di palme giubilanti, quanto dalla rabbia di chi è certo che anche
un’eventuale vittoria onusiana frutterebbe soltanto concessioni marginali.

Soprattutto teme di poter essere accolto dallo schiacciante paragone con
Arafat, l’uomo che nel 1974 si presentò all’Assemblea generale con la “pistola
dei combattenti della libertà” nel fodero – la statua della pistola con la canna
annodata all’ingreso non c’era ancora – e il ramoscello d’ulivo in mano. Era
l’ispirazione retorica per chiudere con una nota minacciosa il grande discorso
dal podio del mondo: “Non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada dalle mie
mani. Lo ripeto: non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada dalle mie mani”.
Una settimana dopo il discorso, l’Onu ha proclamato la Palestina “entità
osservatrice”; con lo stesso appellativo, entità, Arafat si rivolgeva allo stato
d’Israele – proclamato dalla stessa autorità a cui lui chiedeva riconoscimento –
quintessenza del “razzismo” appoggiato dagli imperialisti americani. Con
orgoglio Arafat diceva che l’invito ai palestinesi “indica che le Nazioni Unite
di oggi non sono le Nazioni Unite del passato”, e in effetti ogni mese una
risoluzione del Palazzo di Vetro condannava Israele per qualche crimine, secondo
un pregiudizio anti israeliano mai sopito nei corridoi della sede onusiana.

Ma era anche l’Arafat accorto e sottile, quello che con una fin troppo
facile captatio benevolentiae accostava il desiderio di autonomia palestinese
alla ribellione di George Washington al giogo inglese. A quel podio Abu Mazen
s’approccia con la forza politica della candidatura a stato membro ma anche
gravato da tutto il peso di un’eredità irrisolta. “Non è giusto dire che Abu
Mazen si stia smarcando dalla narrativa di Arafat”, dice l’analista di Chatham
House, Nadim Shehadi, che ricorda quanto il rampollo educato in Unione sovietica
abbia pesato sull’intera saga dominata dall’uniforme militare del leggendario
leader dell’Olp. E dietro alla figura di Abu Mazen, a New York continua a
muoversi la macchina di una diplomazia occidentale alla ricerca di un difficile
compromesso.
L’attivismo di Cameron e Sarkozy nelle trattative del Quartetto
vorrebbe riempire il vuoto lasciato dall’unilateralismo di Obama, ma sono gli
stessi paesi europei a sperimentare divisioni interne. La coalizione inglese è
spaccata fra l’aperturismo di Cameron alla candidatura palestinese e
l’opposizione di Nick Clegg; e così il ministro degli Esteri francese, Alain
Juppé, teme l’instabilità nell’area più di quanto appoggi le aspirazioni delle
popolazioni arabe. A New York parlerà anche Benjamin Netanyahu, il premier
israeliano che ha promesso di svelare “la verità” sulla situazione. Quale
verità? “La solita – dice al Foglio Natasha Mozgovaya, che dirige l’ufficio di
Washington del quotidiano Haaretz – cioè che Israele è pronto a tornare ai
negoziati. Ma lo scopo è uscire dall’Assemblea generale dando l’impressione che
la minaccia palestinese sia più grave di prima”.

NOTIZIE RADICALI – Alessandro Litta Modignani : ” I tanti
fraintendimenti dell’opinione pubblica europea. Israele-Palestina, la Grande
Dispercezione”


Alessandro Litta Modignani

Mediamente, l’opinione pubblica europea ha del conflitto mediorientale una
percezione distorta, dovuta alla scarsa conoscenza dei fatti storici e a
un’informazione quasi sempre incompleta, deviante, quando non apertamente
ostile. Per “opinione pubblica” non mi riferisco a quella parte più o meno
dichiaratamente antisemita, cioè antiebraica, minoritaria e collocata
prevalentemente (ma non esclusivamente) all’estrema destra; né all’altro
segmento violentemente antisionista, cioè anti-israeliano, più numeroso e
d’abitudine schierato a sinistra. Parlo invece di una vasta area di opinione
pubblica “centrale”, moderata, meno connotata politicamente ma non per questo
meno suggestionabile, condizionata da una serie di “convinzioni” ben radicate ma
assolutamente sbagliate, “percezioni” apertamente false e tuttavia credute vere.
Una serie di luoghi comuni di cui è facile dimostrare l’infondatezza e che però
persistono tenacemente, con conseguenze politiche non secondarie, gravi e
dannose soprattutto per Israele. Per cercare di smontare alcuni di questi luoghi
comuni scrivo l’elenco qui di seguito, consapevole della limitatezza di questo
tentativo. Spero con ciò di offrire un contributo a un’informazione più
equilibrata e corretta, alla chiarezza e soprattutto alla verità.

Primo. La causa fondamentale del perdurare del
conflitto in Medio Oriente è la mancata soluzione della “questione
palestinese”.
Falso. La vera causa del conflitto è rappresentato invece
dalla “questione israeliana”, cioè dall’esistenza dello Stato di Israele,
assolutamente intollerabile per larghissima parte del mondo arabo e musulmano.
Per costoro l’offesa ai fratelli palestinesi è solo un pretesto, un tentativo di
mascherare l’odio antico con una nobile causa, per cercare di far passare la
cancellazione di Israele come la riparazione di un’ingiustizia. Se i paesi arabi
avessero davvero a cuore la sorte dei palestinesi, non gli avrebbero sparato
addosso per decenni, ovunque essi abbiano tentato di trovare rifugio:
dall’Egitto alla Giordania, al Libano, alla Siria; non rifiuterebbero loro
l’ingresso e il lavoro sul proprio suolo; non avrebbero occupato (loro, ben
prima di Israele!) per quasi vent’anni anni, fra il 48 e il 67, il territorio
che l’Onu aveva destinato allo Stato arabo di Palestina. Ma costituire quello
Stato avrebbe significato per gli arabi prendere atto di conseguenza
dell’esistenza di Israele, un fatto anche psicologicamente insopportabile. Ecco
perché la soluzione della “questione palestinese” non potrà mai portare con sé
la fine della guerra, come dimostra il tentativo di Abu Mazen di questi giorni.
Per raggiungere la pace è necessaria invece una di queste due condizioni: o la
cancellazione di Israele dalla carta geografica, oppure lo spegnimento (magari
un poco alla volta) del fuoco dell’odio che arde nelle viscere del mondo
arabo-musulmano. La stragrande maggioranza degli israeliani sogna di vivere
finalmente in pace, fianco a fianco con i paesi arabi confinanti, mentre la
stragrande maggioranza del mondo arabo considera questa condizione una tragedia
e una resa. Questo è il problema: il “rifiuto della convivenza” da parte del
mondo arabo-musulmano. La questione palestinese esiste, nessuno lo deve negare,
poiché le condizioni di vita di quel popolo sono spesso drammatiche e
miserevoli. Ma contrariamente a quello che pensano i distratti cittadini
europei, la tragedia palestinese rappresenta un effetto e non la causa del
conflitto mediorientale.

Secondo. Gli israeliani, oltre al territorio che
spetta loro, chiamato Israele, occupano con la forza un’altra porzione di terra
che si chiama “Palestina”.
Sbagliato. Anche Israele “è” in Palestina, nel
senso che risiede in quella parte della Palestina storica che le venne assegnata
con una votazione dalle Nazioni Unite (caso di legittimazione pressoché unico al
mondo) nel dicembre del ‘47. L’altra parte della Palestina, la Cisgiordania e la
Striscia di Gaza sono state occupate, come si è detto, prima da Giordania ed
Egitto e solo dopo da Israele, a seguito della Guerra dei Sei giorni (1967).
L’intero Sinai, cioè circa l’80 per cento dei territori occupati nel ’67, è
stato restituito da Israele all’Egitto in seguito al trattato di pace del ‘78,
proprio in ottemperanza alle famose “risoluzioni Onu” del dicembre ’67,
incentrate sullo scambio “peace for territories”. Nel corso della sua storia,
Israele ha occupato e sgombrato per tre volte il Sinai, ma solo la terza volta
in cambio di un trattato di pace. Le volte precedenti si è ritirato
unilateralmente. Quindi, quando gli estremisti gridano in piazza “Palestina
libera!”, bisogna capire bene cosa vogliono: non che gli israeliani si ritirino
a casa loro in Israele, bensì che l’intera Palestina storica sia liberata del
tutto e per sempre dalla presenza dello Stato ebraico. E’ questa la “pace” cui
aspirano i “pacifisti” italiani. Ma la maggior parte degli europei ignora la
spartizione Onu del dicembre ’47 e non capisce quanto sia violenta questa
minaccia.

Terzo. Israele è uno Stato teocratico, riservato
esclusivamente a chi pratica la religione ebraica.
Assolutamente falso.
Israele è il frutto del “sionismo”, cioè del processo risorgimentale del
“popolo” ebraico, cioè ancora: del più grande tentativo di riforma e di
laicizzazione dell’ebraismo mai tentato nella storia di questo popolo
straordinario. Il sionismo nasce e si sviluppa nell’800, a mano a mano che gli
ebrei riescono a emanciparsi e a uscire dai ghetti delle città europee. Il
sionismo è sempre stato osteggiato dai rabbini tradizionalisti come una
bestemmia e un allontanamento dal precetto biblico, perché la Terra di Israele
secondo costoro sarebbe venuta solo con l’avvento del Messia. (I rabbini che
hanno appoggiato il sionismo potrebbero essere equiparati, per intenderci, ai
cattolici liberali nel Risorgimento italiano). Si tratta dunque di un processo
al contempo laico e nazionale, che mira al recupero della Patria per il popolo
ebraico, identificata là dove esso ha sempre mantenuto le sue radici storiche e
culturali: in Palestina e a Gerusalemme. E’ un’aspirazione comune a tutti i
popoli europei nell’800, che si è realizzata per gradi, attraverso alterne
vicende, fino alla proclamazione dell’indipendenza, il 15 maggio del 1948. In
Israele oggi vivono circa 1,8 milioni di cittadini arabi israeliani, per lo più
musulmani, che hanno scuole, moschee, partiti, sindaci e parlamentari, varie
cariche pubbliche, godendo di tutti i diritti civili fondamentali, sicuramente
superiori a quelli di qualsiasi paese arabo (sono solo esentati dal servizio
militare). Altro che “razzismo” e “ apartheid”. In Israele i religiosi
sicuramente oggi sono un problema, nessuno può negarlo, per il loro
fondamentalismo e la loro invadenza nella vita pubblica. E’ un conflitto aperto:
una ragione in più per difendere Israele, la sua democrazia e la sua laicità,
anche dai nemici interni oltre che da quelli di fuori. Israele è dunque lo Stato
del “popolo” ebraico, non della “religione” ebraica, anche se gli europei
mostrano spesso, per cattiva informazione, di non saper cogliere questa
differenza.

Quarto. Israele è nato subito dopo la seconda
guerra mondiale, come risarcimento al popolo ebraico per le sofferenze patite
con la Shoah ad opera dei nazisti.
Assolutamente sbagliato. Si tratta di un
tipico “errore di percezione”: post hoc, propter hoc. Questa è la tesi che piace
ai sostenitori della causa araba, che possono dire: ma che colpa hanno gli arabi
nella Shoah? E’ la tesi che piace ad Ahmadinejad, che ha chiesto retoricamente:
“ma allora, se è vero che sono stati uccisi 6 milioni di ebrei – cosa che io non
credo affatto – perché gli europei non hanno assegnato agli ebrei un loro
territorio, che so, la Galizia austriaca?” E’ vero invece che quel lungo
processo risorgimentale nazionale, sopra descritto, ha avuto una spinta decisiva
dopo la fine della guerra, quando si sono create le condizioni storiche,
politiche, diplomatiche e militari per la proclamazione dell’indipendenza,
preparata a lungo dai padri fondatori guidati da Ben Gurion. Nella guerra del
48-49 gli israeliani, pur essendo ancora soltanto una milizia di volontari,
hanno avuto la meglio su 5 o 6 eserciti regolari, mandati dagli Stati arabi per
soffocare sul nascere lo Stato ebraico. Allora il Gran Muftì di Gerusalemme, già
alleato di Hitler, invitò gli arabi ad abbandonare in fretta le loro case, per
consentire l’attacco. Sarebbero tornati di lì a poco, non appena gli ebrei
fossero stati annientati. “Gli ebrei superstiti, se vorranno, potranno restare –
disse l’amico di Hitler, stretto congiunto di Yasser Arafat – Non credo però che
saranno in molti”. Invece, per la prima volta dopo duemila anni, gli ebrei
israeliani hanno dimostrato di sapersi difendere. La tragedia palestinese nasce
così, con quell’appello del Gran Muftì. Questa è la storia vera della “nakba”,
che gli europei per lo più ignorano. Certo ci sono state eccessi, violenze,
uccisioni, episodi tragici e dolorosissimi anche da parte israeliana. Quale
guerra ne è immune? Perché negarlo? Infatti Israele non lo nega. Ne ha parlato
ad esempio Benny Morris in “Vittime”, suscitando un grande dibattito in Israele.
Ne parla Vittorio Dan Segre nel suo bel libro “Le metamorfosi di Israele”. Ben
Gurion, dopo aver vinto la guerra, è riuscito a costringere i suoi estremisti
alla resa. Occorre aggiungere però che nulla di ciò che è accaduto era veramente
irreparabile, se solo ci fosse stata la volontà di pace, specie all’indomani di
una tragedia mondiale di proporzioni infinitamente superiori, avendo per giunta
a disposizione l’immensa ricchezza del petrolio. Invece la guerra è continuata
per più di 60 anni e dura tuttora. Perché? L’Europa si interroghi su questo,
invece di fare ingenuamente il “tifo” per il più debole.

Quinto. Israele era un paese democratico finché
hanno governato i laburisti, ma adesso è degenerato in uno Stato autoritario, in
mano alla destra militarista e guerrafondaia.
Nulla di più falso e
facilmente confutabile. Questa tesi è particolarmente cara alla sinistra
moderata e democratica europea, sempre alla ricerca di un’identità ideale, in
equilibrio fra i vecchi stereotipi e una patina di modernità. Tesi suffragata
dal fatto che Rabin, dopo gli accordi di Oslo, è stato assassinato da un
estremista di destra, finendo così fra gli israeliani “buoni” di sinistra,
contrapposti ai “cattivi” di destra (ma quando Rabin era ministro della Difesa,
durante la prima Intifada, non ne parlavano così bene; l’unico ebreo buono è
dunque solo… quello morto?). Se guardiamo la pura cronaca dei fatti, Begin ha
firmato la pace con l’Egitto, Shamir ha firmato la pace con la Giordania, Sharon
ha sgombrato Gaza: tutti e tre capi del Likud. Proprio Ariel Sharon, il falco
per eccellenza, ha dimostrato che gli uomini d’armi in Israele possono
trasformarsi in fautori di pace. Egli ha sgombrato con la forza i coloni dalla
striscia di Gaza, contraddicendo la politica di tutta la sua vita e pronunciando
parole che nessuno avrebbe mai immaginato di poter udire. Questo ha saputo fare
Sharon, da primo ministro di Israele. La risposta, da Gaza, è stata la vittoria
di Hamas, l’uccisione e la cacciata degli uomini dell’Anp e uno stillicidio di
missili sulle città israeliane del sud. E’ la pura cronaca dei fatti, che molti
europei ignorano.

Questo elenco potrebbe continuare a lungo, ma preferisco fermarmi qui. Già
solo questi cinque punti meriterebbero lunghi approfondimenti e discussioni
interminabili. Mi rendo conto di non avere apportato, in questo scritto, alcun
elemento di novità sostanziale nel dibattito sulla questione mediorientale, ma
di avere solo tentato una sintesi molto limitata e parziale di alcuni punti
controversi. Mi piace pensare però che non sia stato un lavoro inutile, se
servirà a sfatare anche solo in parte alcuni pregiudizi che condizionano,
secondo me negativamente, il dibattito su Israele e sulla sua difficile
democrazia.

Il GIORNALE – Gian Micalessin : ” La débâcle palestinese
umilia ancora Obama”


Barack Obama

La primavera araba rischia ora di trasformarsi nell’inverno di Obama. Da
Jimmy Carter in poi mai l’America era caduta così in basso, mai aveva dovuto
sopportare di venir snobbata da un leader palestinese. È successo mercoledì sera
quando Mahmoud Abbas (in arte Abu Mazen) ha sdegnosamente rifiutato la richiesta
americana di non sottoporre al Consiglio di Sicurezza la richiesta di
riconoscimento dello Stato palestinese. Il gran rifiuto si concretizzerà alle
12.30 di oggi quando il successore di Arafat si rivolgerà all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite. Da quel momento si chiuderà un’era. L’America riconosciuta
per oltre 30 anni come l’indiscusso arbitro e il grande architetto della
questione israelo-palestinese abdicherà mestamente al proprio ruolo. E non solo
a quello. Minacciando il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che
garantirebbe il pieno riconoscimento dello Stato palestinese, la Casa Bianca si
trasforma automaticamente nel grande nemico del mondo arabo e islamico. A questo
punto anche il sostegno offerto alle primavere arabe e lo spregiudicato
abbandono di alleati come Hosni Mubarak valgono quanto un due di picche. Le
piazze arabe e musulmane, già pronte a interpretare come arrendevolezza gli
inviti al dialogo e lo smanioso sostegno offerto da Obama alle loro
“rivoluzioni”, sono pronte a sottrarsi definitivamente all’influenza dell’ex
grande potenza americana. Se non la temono i palestinesi perché dovrebbero
preoccuparsene i fratelli musulmani egiziani, gli islamisti libici o le
formazioni filoiraniane dell’Iraq? E soprattutto perché dovrebbero cercare la
protezione di un alleato ormai così debole e inaffidabile quando possono
scegliere tra quelle, assai più energiche e determinate, offerte, a seconda dei
gusti, dal neo sultanato turco di Erdogan o dalla Repubblica Islamica
iraniana?
La capitolazione davanti a Mahmoud Abbas e la minaccia di veto,
oltre a cancellare l’autorità della potenza americana, ne erode ulteriormente la
credibilità. Oltre a dimostrarsi incapace di piegare un leader ininfluente come
Mahmoud Abbas, Obama deve anche rimangiarsi la promessa, formulata ad inizio
mandato, di battersi per la nascita di uno Stato palestinese sui confini del
1967. Questa mesta debacle del presidente sul fronte mediorientale è solo la
proiezione della sua debolezza interna. Stando ad un significativo sondaggio
delle ultime ore Obama sta dilapidando persino i consensi di una comunità
afroamericana flagellata da povertà e disoccupazione. I neri d’America pronti a
tributargli il pieno consenso non sono oggi più del 58 per cento contro l’83 di
qualche mese fa. In queste condizioni Obama non può certo rinunciare ad un voto
delle comunità ebraiche fondamentale per l’ardua corsa alla rielezione del 2012.
Anche riuscendo nella difficile impresa di restar in sella Obama non sarà più,
comunque, il presidente di un’America in grado d’influenzare e determinare i
destini mondiali. A farglielo immediatamente capire ci ha già pensato Nicolas
Sarkozy. Subito dopo il gran rifiuto di Abbas il presidente francese ha proposto
di far votare il riconoscimento dello Stato palestinese non al Consiglio di
Sicurezza, ma all’Assemblea Generale. La procedura, meno vincolante,
garantirebbe ai palestinesi un ruolo da osservatore simile a quello già occupato
dallo Stato del Vaticano.
Ma lo sgambetto si nasconde nel passo successivo.
Quello in cui lo spregiudicato Sarkozy si propone come nuovo arbitro
mediorientale assicurando ad Abbas la ripartenza dei negoziati e il pieno
riconoscimento dello Stato entro solo un anno dalla ripresa delle trattative.
Una garanzia controbilanciata dalla promessa di trasformarsi nel grande
protettore e alleato militare d’Israele. Come dire «s’il vous plait monsieur
Obama il vostro tempo è scaduto per sempre».

ADNKRONOS – ” M. O. : De Magistris firma appello per
riconoscimento Palestina presso Onu “


Luigi De Magistris

Napoli, 22 set. – (Adnkronos) – «Non posso che sostenere la
richiesta che
l’Autorità Nazionale Palestinese rivolge all’Onu
perché la Palestina sia
riconosciuta come 194° stato membro delle
Nazioni Unite». Lo afferma in una
nota il sindaco di Napoli Luigi de
Magistris, che ha sottoscritto l’appello
della Campagna nazionale
palestinese ‘Palestina: lo Stato n. 194’.

«Si tratta infatti – continua il sindaco di Napoli – di una
richiesta
legittima che l’Italia deve sostenere nel contesto
dell’Assemblea Generale
perché risponde ad un diritto insopprimibile
dei popoli: quello
all’autodeterminazione e al riconoscimento della
propria dignità”.

“Soddisfare questa richiesta da parte della comunità
internazionale,
rappresentata dalle Nazioni Unite, sarebbe anche un
importante tassello
posizionato per lastricare la difficile strada
della pace in Medioriente,
che porti alla convivenza fra il popolo
palestinese e quello israeliano in
un contesto di sicurezza e rispetto
dei diritti, come questi stessi popoli
meritano dopo decenni di
sofferenza», conclude de Magistris.

 

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