Testata: La Stampa Data: 31 gennaio 2012 Pagina: 34 Autore: Gianni Riotta – Irene Tinagli Titolo: «Un modello per l’Europa che non cresce più – Israele, la faccia tosta fa start-up».

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 31/01/2012, a pag. 34, l’articolo di Gianni Riotta dal titolo ” Un modello per l’Europa che non cresce più “, l’articolo di Irene Tinagli dal titolo ” Israele, la faccia tosta fa start-up “, preceduto da una nostra precisazione.

A sinistra, la copertina di Laboratorio Israele di Dan Senor e Saul Singer Ecco i pezzi:

Gianni Riotta – ” Un modello per l’Europa che non cresce più  “

Gianni Riotta

E’ possibile riprodurre in Italia e in Europa il miracolo tecnologico delle start-up in Israele? Sì, a due condizioni, tenere in mente la parola «chutzpah» e il modello dell’Idf, l’esercito israeliano. «Chutzpah» è antico vocabolo yiddish di radice ebraica tradotto variamente in «faccia tosta», audacia, impertinenza: sono le doti degli imprenditori israeliani raccontati in Start-Up Nation di Dan Senor e Saul Singer – ora tradotto da Mondadori – e di certo non mancano tra i 5 milioni di imprenditori, medi e piccoli, nel nostro Paese. In Israele, la «chutzpah» porta un modello di business dal progetto al capital venture in pochi giorni. E qui è la prima differenza. Al contrario che da noi, dove tra banche, mercato dei capitali, imprenditori tradizionali prevale una visione polverosa del prodotto (quell’«abbiamo fatto sempre così» che ha condannato farmaceutica, chimica, alimentare, elettronica, media a un destino opaco) nella Nazione Start-up si innova già quel che funziona, consapevoli che domani più non funzionerà. Il mercato si anticipa, non si tallona.
L’altra sponda è l’esercito, che mescola classi sociali e individui. I tre fondatori della start-up bio-tech Compugen, Eli Mintz, Simchon Faigler e Amir Natan, erano reclute insieme nell’esercito e tra i commilitoni hanno assunto 25 dei sessanta matematici che, rielaborando l’algoritmo disegnato da Mintz per catturare terroristi, hanno creato un database usato nella genetica, portando all’interesse della grande Merck. L’Idf ha una organizzazione orizzontale, tipica dei commandos, che educa bene alla start-up. Da noi la «chutzpah» non manca, ma il frullatore sociale della vecchia leva militare è venuto meno. Cosa può sostituirlo? Forse una sorta di Erasmus collettivo – come proposto da Eco nel numero «europeo» della Stampa , con i laureandi in giro per il continente e il Paese?
L’altra lezione preziosa che viene da Start-up Nation al presidente Monti e al ministro Passera è che la crescita passa dalle nuove aziende creative. Dal 2002 a oggi solo le startup hanno creato saldo netto di posti di lavoro in America. E mentre si dibatte noiosamente tra Stato e Mercato come fossimo nell’altro secolo, Israele e Usa dimostrano che il pubblico crea il prato verde per le startup, il capitale dei fondi lo alimenta e la creatività degli imprenditori «colti» – e non seduti sull’aziendina sussidiata di papà – lo fa fiorire. Silicon Valley ha per un terzo aziende guidate da emigranti, ma deve il boom ai fondi investiti nel software dalla Difesa. E in Israele il Fondo Yozma www. yozma.com ha sostenuto le start-up dal 1993. Nel frattempo l’Europa ha sprecato 1,8 miliardi di euro del Fondo di investimenti, perché non ha lasciato libero il mercato, dirigendo da Bruxelles progetti presto avvizziti. E quando la Norvegia ha voluto investire i profitti del petrolio «all’italiana», aziende di Stato dirette da burocrati, parenti e amici dei politici, il tonfo è stato drammatico. Oggi Israele attrae più venture capital di Francia e Germania insieme e il paragone con l’Italia fa arrossire. Ma su 7 milioni di abitanti quasi la metà, 45%, sono andati all’università, da noi i laureati sono uno su cinque, rispetto a una media Ocse di uno su tre.
Mentre Monti apre la difficile trattativa con Confindustria e sindacato su articolo 18 e occupazione, sarebbe bello regalare una copia di Start-up Nation a tutti i partecipanti al negoziato: il lavoro, la ripresa, la crescita si creano solo con la collaborazione di Stato, mercato, università, venture capital , scuola e ricerca, progetto, start-up, creatività e tanta, tanta, faccia tosta.

Irene Tinagli – ” Israele, la faccia tosta fa start-up”

Irene Tinagli

Una precisazione a Irene Tinagli, che scrive : ” E come la necessità di investire così tanto in difesa e di avere un obbligo di servizio militare dai due ai nove anni per tutti i giovani israeliani “. Il servizio militare in Israele  ha una durata di due anni per le donne, tre per gli uomini e non nove, come scrive Tinagli. Comunque il suo articolo è buona informazione. Ecco il pezzo:

Se si chiede ad alcuni dei più affermati imprenditori e investitori dov’è la nuova Silicon Valley, molti risponderanno: Israele. In effetti i dati sono sorprendenti. È il Paese con la più alta densità di start-up al mondo (una ogni 1.844 cittadini), un livello di investimenti di venture capital che, nel 2008, era due volte e mezzo più alto di quello registrato negli Stati Uniti, 30 volte maggiore del livello europeo e 80 volte di quello cinese. Ed è il secondo Paese dopo gli Stati Uniti per numero di imprese quotate al Nasdaq. Per rendere un’idea: un numero che supera quello di tutte le imprese del continente europeo messe assieme.
Ma cosa c’è dietro il «miracolo economico» d’Israele? Alcuni economisti e studiosi stranieri lo hanno spiegato con le politiche economiche che hanno fortemente incentivato la ricerca e la nascita di aziende tecnologiche (Israele ha il più alto tasso di investimenti in ricerca e sviluppo del mondo), altri con le privatizzazioni e le liberalizzazioni intraprese nel 2003 da Netanyahu quando era ministro delle Finanze (e in particolare la sua riforma del sistema bancario), altri nell’enorme riserva di capitale umano del Paese, con il 45% della popolazione in possesso di istruzione universitaria (un dato invidiabile se confrontato con il 15% italiano). Ciascuno di questi fattori ha certamente svolto un ruolo importante nella crescita israeliana. Ma dipingono un quadro molto incompleto, che trascura il contesto storico e culturale di un paese che ha caratteristiche assai peculiari, elementi che ne hanno influenzato (e continuano a influenzare) la traiettoria di sviluppo. Chiunque abbia avuto modo di conoscere alcuni dei protagonisti di questa rinascita – per lo più giovani ingegneri, programmatori, imprenditori – si è certamente reso conto che il segreto del successo di queste persone non può essere semplicemente ascritto a una specifica politica industriale o economica, ma è legato a qualcosa di più profondo che pervade il loro modo di pensare e lavorare, di affrontare sfide e problemi.
Questo qualcosa è perfettamente descritto da Start-Up Nation , un libro Dan Senor e Saul Singer già pubblicato negli Stati Uniti, che ora esce in Italia, da Mondadori, con il titolo Laboratorio Israele (pp. 264, 18). Un insieme di analisi e racconti da cui emerge come le continue e enormi difficoltà che questo Paese ha dovuto affrontare abbiano forgiato il carattere e lo spirito della sua gente, e come ciascuno di questi ostacoli sia stato trasformato in punto di forza. Ed è questa prospettiva storica che ci mostra, per esempio, come un Paese sotto costante minaccia di attacchi terroristici abbia imparato a organizzare la propria vita economica e sociale in modo da non essere intaccata dalle vicende militari, diventando uno dei sistemi economici più produttivi e affidabili. E come la necessità di investire così tanto in difesa e di avere un obbligo di servizio militare dai due ai nove anni per tutti i giovani israeliani (a cui vanno aggiunti 20 anni di riserva) sia stata trasformata in una straordinaria opportunità di formazione professionale e personale dei cittadini (l’esercito israeliano non solo ha tecnologie sofisticatissime, ma fa uso di sistemi di selezione, istruzione e formazione dei propri soldati efficaci come quelli di Harvard o Stanford).
Persino i frequenti boicottaggi di tutte le loro merci hanno svolto una parte, stimolando gli israeliani a dedicarsi ad attività e prodotti piccoli e immateriali come i software e le tecnologie legate alle comunicazioni e a Internet. Per non parlare del ruolo della loro lunga diaspora, che li ha resi cosmopoliti, pronti ad affrontare e adattarsi a qualsiasi contesto e, soprattutto, aperti all’immigrazione. Migliaia di rifugiati sono stati accolti in Israele: dagli etiopi in fuga dal regime antisemita di Mengistu Haile Mariam agli ebrei romeni scappati dal regime di Ceausescu. Per non parlare degli 800 mila ebrei russi che vi si riversarono dopo il crollo dell’Unione Sovietica (equivalenti a un sesto di tutta la popolazione israeliana dell’epoca). Eppure ognuna di queste persone ha ottenuto la cittadinanza lo stesso giorno in cui è arrivata in Israele.
Un complesso insieme di fattori che ha reso questo popolo tremendamente tenace, imprenditoriale e «problem solver». Esattamente quello che serve per competere oggi e per attrarre investimenti da ogni angolo del mondo. Può sembrare incredibile che gli investimenti stranieri in Israele siano triplicati negli stessi anni in cui sono aumentati gli attacchi terroristici. Ma come ha detto Warren Buffett quando ha investito 4,5 miliardi di dollari in un’azienda israeliana: non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento. Lo stabilimento si ricostruisce. Quello che è importante è il talento dei lavoratori e dei manager, la loro affidabilità, la reputazione che si sono costruiti nel mondo. Ecco cosa attrae aziende come Intel, Google o Microsoft.
Le sfide per Israele non sono certo finite. Preoccupa il nuovo rallentamento dell’economia internazionale che si profila per il 2012. E preoccupano il recente apprezzamento dello shekel sul dollaro e le previsioni sull’inflazione. Ma se questo Paese riuscirà a tener vivo quello spirito che gli ha fatto trasformare ogni difficoltà in elemento di forza, è probabile che riuscirà ancora a farcela.

 

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