Un articolo di Ugo Volli

Poiché diversi illustri collaboratori di questo sito si sono lamentati dell’uso da parte di un innominato dell’“odiosa” espressione “odio di sé” e asseriscono di non comprenderla, e io temo di essere uno dei pochissimi se non l’unico a utilizzarla qui, mi corre l’obbligo di una spiegazione. L’“odio di sé” potrebbe chiamarsi in molti altri modi, per esempio come ha proposto di recente Uzi Silber in una dissenting opinion ospitata da Haaretz, Jewish flu, influenza ebraica: “contagiosa ma contenibile, benché in definitiva incurabile”.

Esso è ovviamente un’etichetta, un nome semplificato inventato cent’anni fa da Theodor Lessing per un fenomeno molto complesso e purtroppo diffuso nel nostro popolo soprattutto ma non solo in tempi recenti, dopo l’emancipazione.

Esso consiste nel fatto che un ebreo assuma il punto di vista dei nemici del suo popolo riguardo all’ebraismo, agli ebrei, al popolo ebraico, a Israele.

Una persona del genere non si odia personalmente, è chiaro, salvo in casi estremi come quello di Otto Weininger, giovanissimo autore di un libro violentemente antisemita come Sesso e carattere, che constatando che la conversione al protestantesimo non gli toglieva di dosso la sua ripugnante natura ebraica, si uccise per eliminarla, ottenendo con ciò il plauso di Hitler.

Odia piuttosto l’ebreo che è in lui, o gli ebrei da cui vorrebbe distinguersi, o in genere si limita ad assumere il punto di vista degli antisemiti, accordandosi il permesso o attribuendosi il dovere di giudicare “il suo prossimo” dall’alto del suo punto di vista illuminato e virtuoso.

In passato questo giudizio aveva a che fare con
la “perfidia” ebraica,
la sua contrapposizione alla “vera fede”;
poi si trasformò in rifiuto del ruolo economico-sociale degli ebrei (Marx),
del loro carattere “femminile” (Weininger),
della loro inferiorità razziale o intellettuale,
del potere bancario e/o rivoluzionario che esercitavano.

Negli ultimi decenni l’odio per l’ebreo è diventato odio
contro Israele,
contro “L’occupazione di terre altrui…
La colonizzazione perversa capillare ed inarrestabile di terre espropriate contro tutte le norme della legalità internazionale…
Lo sradicamento di migliaia di ulivi…
Il razionamento dell’acqua…
La demolizione sistematica di case palestinesi…
La costruzione di una prigione a cielo aperto…
Il disprezzo razzista per chi chiede i propri diritti di popolo…
L’apartheid de facto…
Il muro della vergogna”
(cito da un articolo apparso ieri sull’Unità, firmato da un attore che viene identificato da buona parte del pubblico italiano come esponente della cultura ebraica e che non nomino qui per rispetto dei lettori).

Erano ebrei affetti da odio di sé buona parte degli informatori e dei censori dell’Inquisizione che collaboravano ai suoi processi indicando le pratiche ebraiche da proibire e i passi dei libri da bruciare.
Erano ebrei,
oppure ebrei convertiti
o discendenti da ebrei colpiti dall’“influenza ebraica”
numerosi intellettuali che contribuirono a costruire e a diffondere gli stereotipi antisemiti:
da Marx a Karl Kraus,
da Lombroso a Simone Weil.

Vi furono degli ebrei che cercarono di iscriversi al partito nazista, riuniti in un’associazione nazionalista tedesca (Der Verband nationaldeutscher Juden).

Dopo la nascita di Israele e il conflitto coi palestinesi, il loro numero è cresciuto,
da Chomski a Ilan Pappe,
da Toni Judt a Naomi Klein,
da Schlomo Sand a Judit Butler
ai loro imitatori italiani.

Non si tratta di un movimento, ovviamente, né di un sistema filosofico coerente.

Vi sono fra loro atei e religiosi, come gli ultraortodossi Naturei Karta e quella Rabbi Lynn Gottlieb del movimento renewal, cioè per così dire l’estrema destra e l’estrema sinistra dell’ebraismo religioso, che hanno entrambi ritenuto opportuno sollecitare e ottenere e pubblicizzare incontri con il maggior antisemita dei nostri anni, il presidente iraniano Achmadinedjad.

Vi è chi nega l’esistenza del popolo ebraico descrivendolo come un mito sionista (Sand)
e chi invece ritiene che l’esistenza di Israele sia in contraddizione con l’ethos ebraico autentico che sarebbe per sua natura “diasporico” (Boyarin),
chi se la prende con lo stato di Israele per il “peccato originale” di aver “rubato la terra” ai palestinesi (Pappe),
chi si limita a condannare “le politiche del governo israeliano” (guarda un po’ di tutti i governi israeliani)
e chi condanna i “crimini di guerra” dell’esercito, magari salvo poi pentirsene, come il giudice Goldstone,
chi se la prende con “i coloni”,
chi parla di “stato di apartheid”,
chi di “razzismo”.

C’è chi come fece il direttore di Haaretz in una conversazione con l’ambasciatore americano, invoca uno “stupro” americano su Israele per costringerlo a fare quel che deve, cioè “la pace” nei termini voluti dagli arabi,

e chi rivendica di amare Israele, ma nei termini di un “tough love”, un amore duro, che dovrebbe imporgli di nuovo quelle politiche che gli israeliani non vogliono: è il caso della lobby americana ebraica di sinistra J Street, finanziata da Soros e attestata per esempio riguardo all’Iran su posizioni più lontane da Israele della non certo simpatetica amministrazione Obama.

E’ naturalmente necessario distinguere l’odio di sé dalla legittima critica politica.

Ma in realtà anche l’odio di sé è del tutto legale, in un sistema democratico:
diagnosticarlo in qualcuno non significa attribuire a chi lo pratica un reato o togliergli il diritto di parlare, ma semplicemente provare a decifrare le radici ideologiche e psicologiche della sua posizione e suggerire la sua insostenibilità dal punto di vista ebraico, indicarla come esterna all’ebraismo.

Se l’appartenenza all’ebraismo nella grande maggioranza dei casi viene da una determinazione familiare, il suo mantenimento richiede, oggi come nel passato, una scelta, “un’adesione al destino storico del popolo ebraico” (rav Soloveitchik).
E’ questo brit goral, quest’accettazione della dimensione collettiva dell’ebraismo che è negata dall’odio di sé.
Chi vive in questa condizione antepone la propria accettazione da parte del mondo circostante, la propria ideologia, nel migliore dei casi la propria nuova fede o etica all’appartenenza all’ebraismo.

Che lo faccia
per viltà,
per conformismo,
per opportunismo
oppure per convinzione metafisica
o per una scelta che ritiene altamente morale,
non ha molta importanza dal mio punto di vista:
spesso questi motivi si mescolano inestricabilmente e le conseguenze di tale mossa non cambiano.

L’inquisizione l’altro ieri
come il partito staliniano ieri
come oggi la grande mobilitazione mediatica contro Israele
usano volentieri chi si presta come teste d’accusa contro l’ebraismo.

Le conferenze dei Pappé,
i libri dei Chomski,
i rapporti dei Goldstone,
le manifestazioni di certe Ong israeliane finanziate dall’Europa,
certi articoli di Haaretz
hanno una diffusione e un impatto certamente molto al di là della loro diffusione nel mondo ebraico.

Insomma, l’odio di sé esiste ed è certamente odioso – il fenomeno, non il nome.
Ed è anche peculiare, senza paragoni con le critiche che ogni stato e ogni governo si trova a subire.
Perché il nostro non è solo l’unico popolo di cui si sia programmato la “soluzione finale”,
ma Israele è il solo stato la cui semplice esistenza sia minacciata fin dalle origini,
sottoposto a ininterrotte aggressioni terroristiche,
a campagne di delegittimazione e di odio,
di boicottaggio e di isolamento.

L’odio di sé, la volontà da parte di ebrei che si ritengono “illuminati” di negare il diritto all’esistenza e all’autodifesa di Israele è paragonabile ai “neofiti” che incoraggiavano l’Inquisizione alla distruzione degli ebrei.
O, se si vuole, a posizioni come quelle di Lessing Rosenwald, presidente dell’ American Council for Judaism che nel 1944, in piena Shoah, paragonava la spinta per fondare uno stato ebraico al “nazionalismo hitleriano”.

Combattere quest’odio di sé,
che oggi ha largo spazio sulla stampa “progressista” di mezzo mondo,
che dove può cerca di condizionare contro Israele le comunità ebraiche e ancor più i poteri politici,
mi sembra un compito importante e per nulla banale.

Ugo Volli

 

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