Testata: Il Giornale
Data: 12 febbraio 2015
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Obama pronto a reinvadere l’Irak»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 12/02/2015, a pag. 1-3, con il titolo “Obama pronto a reinvadere l’Irak”, il commento di Fiamma Nirenstein.

Sotto: Barack Obama non riesce a risolvere il problema del terrorismo in Iraq, anzi…     


Barack Obama

Qui si esagera coi paradossi. Obama, premio Nobel per la pace, il presidente che ha scelto per la sua seconda elezione la carta del ritiro dall’Irak, adesso va al Congresso per chiedere «poteri di guerra» per combattere l’Isis. È il primo voto di guerra del Congresso da 13 anni, quando nel 2002, dopo l’11 settembre, fu consegnata questa chiave nella mani di George W. Bush.

Obama vuole rispondere all’orrore dell’opinione pubblica per l’esecuzione dell’americana 26enne Kayla Mueller e cerca un ruolo primario nella riconquista di Mosul e di Kirkuk, fiori all’occhiello del Califfato, simbolo del pernicioso svanire degli americani che anche Obama comincia a vedere come una fuga sbagliata, l’origine del fiume di sangue: a Mosul in questi giorni ferve la battaglia fra Isis e esercito iracheno, e gli interventi aerei della coalizione non appaiono sufficienti a battere l’Isis.


Iraq in fiamme; Obama: “Missione compiuta”

Obama non chiede un’azione di terra, ma forse ci pensa. «Non sto chiedendo di aprire una nuova guerra sul campo come in Afghanistan o in Irak», ha detto intervenendo alla Casa Bianca. «La coalizione anti-Isis è all’offensiva e i militanti jihadisti perderanno. Stiamo distruggendo le loro linee di comando, di controllo e di rifornimento. La nostra coalizione è forte, la nostra causa è giusta e la nostra missione avrà successo. Saranno indeboliti e distrutti». Eppure è imbarazzante: tutti ricordano come nel 2008 il presidente usò il voto di alcuni democratici favorevoli ai poteri di guerra a George W. Bush come un’arma letale per far fuori i suoi competitori alle primarie. Finora, anche se sono i droni a far fuori i miliziani Isis, aveva utilizzato gli stessi poteri statuiti nel 2002. Ma i legislatori già litigano: quali poteri di guerra? Fino a quando? Cosa segnerà la fine del conflitto? E ancora: solo contro l’Isis o sarebbe meglio allargare il raggio?

Per ora Obama prevede, in una bozza di risoluzione inviata al Congresso, tre anni di poteri di guerra che non includano limiti geografici e non escludano, appunto, l’uso di truppe sul campo pur «non consentendo azioni offensive». Così le forze speciali potranno compiere blitz di salvataggio e, dicono gli uomini del presidente, uso di forze di terra per la raccolta di informazioni di intelligence. Un programma vago, senza garanzie, soggetto a tutti i venti politici come quelli del passato che di fatto hanno lasciato che l’Irak si trasformasse con la Siria nel nocciolo del Califfato. Fino ad ora i presidenti hanno fatto molti sbagli con l’Irak, immaginando sempre di aver vinto quando invece avevano creato solo nidi di vipere che avrebbero infettato il mondo di terrore.

Tutti se ne sono andati troppo presto. A partire dal primo, George Bush, che abbandonò l’Irak dopo sei mesi, credendo che lo sgombero del Kuwait fosse la chiave perché Saddam si mettesse quieto; poi George W., facendosi un film, che abbiamo condiviso in tanti, sulla possibilità che l’Irak avrebbe imboccato la strada della democrazia e anzi l’avrebbe esportata. Bush fu il primo a cedere alla richiesta pacifista internazionale e a lasciare che l’Irak restasse quello che era: un Paese dilaniato da scontri fra sunniti e sciiti, dominato da un potere sciita pronto ad allearsi con l’Iran e a imporsi di forza sui sunniti, infuriati per la sconfitta e l’umiliazione, spinti verso Al Qaida portandosi appresso tutta l’eredità di Saddam in armi e denaro.

È in questo ambito che è nato l’Isis. L’Irak era allora quello che è sempre stato: una società shariatica e violenta in ogni sua parte in cui la persecuzione delle minoranze religiose, delle donne, degli omosessuali, è routine come l’odio per gli Usa. Il generale Petraeus capì che gli Usa dovevano rivolgersi alla popolazione, investire sul suo futuro, dargli forza contro il terrorismo, contro Al Qaida e contro la prepotenza sciita, ma anche l’investimento su di lui è durato poco.

Obama poi ha sgomberato per dare risalto alla sua figura nel ruolo di grande pacifista e ha lasciato campo libero alla costruzione di quell’Isis che ora vuole distruggere. A onore di Bush dobbiamo ricordare il suo profetico discorso del 12 luglio 2007: «Qualcuno vuole che lasciamo ora l’Irak… Significa abbandonare il futuro del Paese ad Al Qaida… Significa permettere ai terroristi di ottenere un rifugio sicuro per rimpiazzare l’Afghanistan… Aumentare le probabilità che le truppe americane debbano tornare in Irak per affrontare un nemico addirittura più pericoloso». Bush previde qui «massacri orribili». Sentiva la magnitudine della tragedia in cui il mondo stava penetrando a causa dell’esperienza traumatica dell’11 settembre. Obama è stato eletto e si è comportato in base all’illusione di essere fuori dal tunnel, che invece è ancora lungo e buio.

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13 Responses to La missione di Obama contro lo Stato islamico: confusa e indecisa.

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