Shoma duste ma hesteed, il messaggio che più di tutti risalta alle orecchie, che fa toccare con mano la grandezza di Israele e dei politici che lo rappresentano. “You are not our enemy. You are our friends”: questo l’annuncio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla popolazione iraniana, un concetto elaborato all’interno di un discorso quasi perfetto, incredibilmente ironico, positivo e dalla visione del tutto ottimistica del futuro nella regione.

Netanyahu dunque cambia totalmente la retorica che ha contraddistinto i suoi discorsi negli anni passati, all’interno dei quali si è spesso soffermato sulle assurde critiche dell’ONU verso Israele e sull’altrettanto assurda apertura verso l’Iran, che ha condotto negli anni agli accordi sul nucleare.

Già dall’anno scorso l’oratoria di Netanyahu in rappresentanza di Israele si era spostata su binari diametralmente opposti, quando durante la stessa Assemblea Generale il Primo Ministro aveva speso molto del suo tempo a gioire delle rinnovate relazione con paesi fino a poco prima ostili. Nonostante le storiche frizioni tra l’ONU e Israele, dimostrabili facilmente se si considera il numero di risoluzioni adottate dall’ONU contro Gerusalemme due anni fa in confronto a quelle adottate, ad esempio, contro la Siria, il premier ha utilizzato questa importante vetrina internazionale non tanto per criticare la posizione delle Nazioni Unite come compagine unica, ma soprattutto per elogiare le azioni di molte nazioni parte dell’ONU che hanno singolarmente avviato cooperazioni con Israele negli ultimi due anni.

Le nazioni più ostili a Israele, solitamente inquadrate in quella parte del mondo oppresso delle “post-colonie” – in sostanza Asia, Africa e America Latina – sono state fortemente elogiate da Netanyahu per essersi aperte nei confronti di Israele e per aver capito che, per combattere le minacce peggiori che si affrontano in determinate aree del mondo, non esiste partner migliore di Israele. Un paese minuscolo, circondato da nemici, attaccato sia da eserciti convenzionali che dal terrorismo jihadista, un paese colpito da periodi di forte siccità, originariamente deserto, un paese che dopo neanche un secolo dalla fondazione è diventato una delle nazioni più innovative e tecnologiche del pianeta. Un paese nato nella difficoltà, che ha trovato la fortuna in se stesso e nell’amore dei propri abitanti.

Chi sa affrontare le crisi idriche in Africa meglio di chi ha saputo coltivare il suolo israeliano ? Chi sa come rispondere ad una guerra civile meglio di chi ha combattuto decine di eserciti diversi in soli 70 anni ? Chi sa come estirpare le radici della radicalizzazione meglio di chi si ritrova ad affrontare il terrorismo ogni singolo giorno dalla sua fondazione?

Ed ecco che Israele ha trovato uno spazio nel cuore dell’Africa sub sahariana (Etiopia, Rwanda, Burudi, Benin, Liberia, Senegal) dopo aver siglato diversi accordi economici e aver aiutato a combattere fame e pestilenze grazie alla costruzione di ospedali e infrastrutture per il ricovero dei malati, ma anche all’istruzione in materia agricola, fornita in diversi paesi tra cui l’Uganda. Che dire della lotta all’Ebola, il virus che ha ucciso più di diecimila persone in Africa, e che Israele sta attivamente aiutando a debellare con fondi, supporto logistico, innovazioni in campo medico e tecnologico che hanno aiutato la popolazione affetta dalla malattia in stati come Sierra Leone, Liberia e Guinea.

Come non citare allora, il contrasto al terrorismo somalo infiltratosi in Kenya? La cooperazione in campo di Intelligence e sicurezza di cui il presidente Uhuru Kenyatta aveva bisogno per combattere Boko Haram e Al-Shabbab, due dei gruppi terroristici più pericolosi che stanno operando in Africa. Uganda, Kenya, Chad, Guinea, Somalia, Sudan, Zambia, Etiopia sono solo alcune delle nazioni in difficoltà che stanno aprendo le porte a Israele.

E Il Sud America? Dopo aver combattuto al fianco dell’esercito colombiano contro le FARC e dopo avergli fornito assistenza logistica, tecnologica e alcuni esperti di intelligence per elaborare la strategia di difesa, anche le relazioni con la Colombia si sono rafforzate. Il Cile, dopo il terremoto del 2010 ha beneficiato degli aiuti israeliani destinati alla popolazione colpita, il Brasile ha ingaggiato professionisti della sicurezza israeliani per i giochi olimpici e per i mondiali di calcio, continuando a usufruire della loro esperienza nelle attività di contrasto ai cartelli della droga e alla criminalità organizzata.

Anche in America Latina c’è chi, come il Perù, ha riconosciuto l’importanza di una partnership con Israele in ambito di sviluppo agricolo e idrico. Nazioni che hanno mantenuto forti relazioni con Israele per molti anni, come l’Argentina, azzardano persino una cooperazione in ambito militare, un campo nel quale Israele non è proprio una nazione sprovveduta.

Insomma, Natanyahu ha ribadito ieri un concetto già esternato un anno fa: la vera rivoluzione sta prendendo piede fuori dal contesto delle organizzazioni internazionali. I singoli stati nazione, in particolare quelli in difficoltà, stanno riconoscendo il potenziale di Israele e scelgono di cooperare con questo piccolo gigante in numerosi ambiti: agricolo, idrico, medico, scientifico, tecnologico e, ovviamente, in ambito di sicurezza e di contrasto ai gruppi armati settari che spaventano Africa e America Latina.

Come ribadito nel discorso di ieri, l’apertura che stiamo vedendo nei confronti di Israele negli ultimi due anni non ha precedenti nella storia. Dal presidente statunitense Donald Trump che inserisce Israele nella sua prima visita da leader della prima potenza mondiale, e che lo fa atterrando con un aereo partito da Riyad, fino alla prima visita in Israele nella storia di un leader Indiano, Modi, passando per l’apertura ed il rafforzamento delle relazioni tra Israele e alcuni dei più importanti stati arabi e/o musulmani: Azerbaijan, Kazakistan, Egitto, Giordania.

Per ultimo ma non per importanza, il rafforzamento delle relazioni con quei paesi europei che finalmente iniziano ad aprire gli occhi e ad osservare la superiorità di Israele in ambito di lotta e contrasto al terrorismo, paesi che giorno dopo giorno, attentato dopo attentato, morte dopo morte, iniziano a comprendere un concetto fondamentale che ci porteremo avanti nel prossimo decennio: Israele non ha bisogno dell’Europa per combattere i propri nemici, è l’Europa che ha bisogno di Israele per combattere quelli che per decenni ha definito “amici”.

Dopo 70 anni, il mondo abbraccia Israele, e Israele abbraccia il mondo” parole mai tanto positive e vere hanno riempito l’aula più importante del mondo. Nonostante l’anno non sia iniziato bene a causa delle risoluzioni UNESCO, vero baluardo dell’ignoranza che pervade la lotta contro la legittimità di Israele, Netanyahu ha mandato un messaggio brillante ad una comunità internazionale quasi incredula.

L’intero concetto portato avanti durante il discorso si può facilmente riassumere in una sola frase, che è arrivata forse troppo tardi, dopo qualche minuto perso a criticare l’Iran e a manifestare il proprio disappunto (come al solito) verso la minaccia nucleare iraniana. “Shoma duste ma hesteed”, “Non siete miei nemici, bensì miei amici”. Una frase pronunciata in lingua Farsi, quella parlata in Iran, la stessa lingua che Ayatollah e leader iraniani utilizzano da decenni per minacciare Israele. La stessa lingua che sui missili testati negli ultimi dieci anni riporta “morte a Israele”, la stessa lingua che Ahmadinejad ha adoperato per i suoi discorsi antisemiti e negazionisti. Quella stessa lingua di odio e di pregiudizio è stata impiegata dal “nemico” israeliano, non per minacciare, ma per abbracciare un popolo ed una cultura che hanno radici di forte legame con quella ebraica. Nella speranza che la popolazione iraniana, che in chi ne conosce la storia ha fama di essere determinata e orgogliosa, comprenda quanta discriminazione abbia portato questa dittatura che la tiene in pugno dal 1979, quante violazioni dei diritti, quanta limitazione della libertà, quanto sangue abbia portato nelle strade di chi ha dissentito la parola dell’Ayatollah.

Un discorso che ci catapulta verso un futuro nel quale i nemici di Israele saranno sempre di meno, o almeno questo è quello che ci auguriamo.

Rebecca Mieli, L’Informale, 20/09/2017

 

 

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