Riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Oscar Marcheggiani, nella speranza che si possa aprire un dibattito sul tema e intervengano altri esperti per approfondire il tema dell’atteggiamento degli italiani nei confronti dei loro connazionali ebrei.

di Oscar Marcheggiani

Tutto è nato dalla discussione: il campo di Ferramonti di Tarsia era un campo di concentramento o un campo di raccolta rifugiati? Prima di affrontare questo argomento faccio un passo indietro. L’altra sera nella sala affrescata dell’Umanitaria c’è stata la proiezione del documentario “Pentcho” che narra le straordinarie vicende di una vecchia nave fluviale che, trasformatasi inopinatamente in nave d’alto mare (come dire che Woody Allen vada sul ring per il titolo mondiale dei pesi welter), naufraga su uno scoglio vicino all’isola di Creta dopo un lunghissimo viaggio iniziato a Bratislava. Ed è soprattutto la storia dei 520 ebrei diretti in Palestina che vengono salvati da un eroico comandante italiano. 

Dopo la proiezione Davide, Laura, il regista del film Stefano e io siamo saliti sul palco per una tavola rotonda sul film.  Davide è il capo del Centro Studi sulla Brigata Ebraica e Laura lavora presso il Centro Documentazione Ebraica. Due persone evidentemente molto ferrate sulle faccende degli ebrei. Quanto a me, l’attività di cui mi occupo nell’ambito dell’associazione “Amici di Israele” è quella di ricostruire e valorizzare le relazioni di amicizia che ci legano a Israele, compito che mi pare connaturato al nome stesso della nostra associazione. Questo non significa falsare la realtà, ma semplicemente evitare la tendenza tipicamente italiana all’auto-flagellazione. Non ho infatti mai conosciuto alcun popolo, avendone girati molti, che per la più piccola contrarietà tiri fuori con tanta frequenza la bruttissima frase “mi vergogno di essere italiano”. Ecco, io sono molto fiero di essere italiano e non scambierei il mio paese con nessun altro.

L’argomento della Shoah è troppo serio per giungere a sbrigative assoluzioni di questo o di quello ma, da ingegnere, io credo anzitutto ai numeri. Subito dopo i numeri, vengono documenti e testimonianze non di tizio, caio o sempronio, ma quelli della parte lesa.

Circa i numeri della Shoah, Davide e Laura ne hanno certamente di più accurati di quelli che ho raccolto io da una veloce indagine su web, tuttavia – sempre da ingegnere – so che il calcolo approssimato è bastato a progettare ponti ed aeroplani prima dell’avvento dei calcolatori. Le verità sono nei grandi numeri.

Nelle cifre qui di fianco, come ha notato Laura, la maggiore incertezza è sugli ebrei che sono riusciti ad emigrare dai vari paesi prima che la situazione precipitasse, numeri che, per molti dei paesi elencati, nella mia ricerca sommaria non ho trovato. Vi sono poi altri fatti non conteggiati. Sappiamo che in Francia molti fuggirono tanto dalla Repubblica di Vichy quanto dall’area occupata dai tedeschi verso le zone occupate dagli italiani dove molti sopravvissero alle successive sciagure. Sappiamo che in Croazia gli ebrei correvano a mettersi sotto la protezione delle forze armate italiane. Sappiamo insomma che molte migliaia di costoro sopravvissero solo grazie alla protezione assicurata dagli italiani nei confronti dell’alleato tedesco. La tabella quindi mostra non solo che l’Italia fu il paese dove si consumarono meno tragedie, ma presumibilmente anche quello dove la popolazione assicurò la maggiore protezione. Contrariamente a quanto viene spesso detto, i numeri suggeriscono che si trattò di un fatto collettivo da parte della popolazione italiana, e non di episodi isolati. Furono le delazioni, le denunce a rappresentare fatti isolati. Come raccontano le bravissime guide di Binario 21 (Museo della Shoah di Milano), a Milano non c’era bisogno di alcuna delazione. Tutte le famiglie ebraiche erano accuratamente censite dai registri dell’amministrazione fascista, come erano censiti i loro beni. I tedeschi andavano a colpo sicuro nei rastrellamenti: se mancava una persona o risultavano beni alienati, ricorrevano alla tortura perché saltassero fuori. Per giustificare perdite umane che in Italia furono un quinto rispetto a quelle della media dei paesi europei (nonostante la lunga e feroce occupazione tedesca), la sola spiegazione possibile è che il popolo italiano si comportò diversamente dagli altri. Tra l’altro il raffronto numerico della tabella è sfavorevole all’Italia. Se fossimo in grado di conteggiare, ad esempio, il numero di ebrei francesi che riuscirono a fuggire dalla Francia prima che si scatenasse la caccia all’uomo, la percentuale di vittime francesi diventerebbe più che doppia rispetto a quella italiana.

Tornando alla questione iniziale, sia Laura che Davide erano convinti che il campo di Ferramonti fosse un “campo di concentramento”. Mi permetto di non essere d’accordo. Non metto in dubbio che questa fosse la definizione “amministrativa” del campo, ma quello che conta è ciò che vi avvenne realmente. Alla luce dei fatti, la definizione secondo me corretta è “campo di raccolta per rifugiati”. Rifugiato è infatti “persona che ha trovato rifugio in luogo sicuro”. E quale luogo fu più sicuro di Ferramonti? Nessuno mai morì di morte violenta, gli “ospiti” erano regolarmente nutriti (in tempi in cui tutti gli italiani stringevano la cinghia, il caffè si faceva con la cicoria e mio padre, allievo ufficiale a Firenze, trovava come unico cibo ampiamente disponibile in città il castagnaccio), e c’era libertà di movimento fuori dal campo per coltivare ortaggi e raccogliere frutta. Quando parve che arrivassero i tedeschi, il comandante del campo convocò tutti e li invitò a svignarsela sui monti finché il pericolo fosse passato, dopodiché tutti tornarono. E’ questo un campo di concentramento? 

Poco si parla invece dell’efferata crudeltà degli inglesi, molto peggio che pesci in barile nell’immenso dramma. Per fare un esempio, sul finire del ’43 il dittatore Antonescu si convinse che Hitler aveva perso la guerra ed era opportuno per la Romania cambiare cavallo. Egli prima rallentò, successivamente interruppe il massacro su commissione degli ebrei. Tanto che nel 1944 spedì in Palestina 13 navi con circa 13.000 ebrei a bordo, navi che furono respinte dalle autorità inglesi e rispedite verso un maligno destino. Il doppio di tutte le vittime italiane. Degli inglesi nella Shoah chissà perché si parla poco, mentre la vulgata vuole che gli italiani non si comportassero tanto diversamente dagli altri.

A testimoniare che questo non è vero per fortuna ci sono loro, gli scampati allo sterminio che da tutta Europa si riversarono in Italia, dove si sapeva che la popolazione era amichevole e che le autorità aiutavano i profughi ad imbarcarsi per la Terra Promessa (o anche per altre destinazioni come Nord e Sud America). Fondamentale fu l’aiuto dato dal governo italiano ad Aliyah Bet, a partire dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi fino alle autorità locali, per superare le barriere frapposte dagli inglesi alle partenze di scampati ebrei verso la Terra d’Israele. Tra questi scampati frasi come “voi ci avete sempre accolti” o “nessuno ci aiutò come voi” rimbalzano frequenti nelle testimonianze e negli scritti. Senza contare i preziosi aiuti militari, in gran parte sotto banco, che demmo alle forze armate del nuovo stato di Israele quando dovette affrontare la guerra di indipendenza scatenata da cinque nazioni arabe. 

Insomma, cari connazionali ebrei e non, tiriamo su la testa e facciamoci riconoscere per ciò che siamo!

di Oscar Marcheggiani

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.